Non posso negare che, una mattina del giugno scorso, leggendo il messaggio che mi era appena arrivato dalla redazione della Rivista di Alternativa, ho provato un po’ di timore. “Ciao Lorenzo, ti farebbe piacere se ti chiedessimo di scrivere un articolo sul tuo libro?”. Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva di scrivere un pezzo su me stesso, o quantomeno su un mio lavoro. E non avevo la minima idea di come farlo senza risultare oltremodo pesante. Da un lato c’era il rischio di scadere nell’autocelebrazione: terribile e inopportuno. Dall’altro il pericolo di inondare la pagina di retroscena, minuzie e dettagli totalmente incomprensibili per chi non avesse letto Nel silenzio e nel vento. Ci ho pensato un po’, poi ho deciso. Invece di parlare del contenuto del libro, avrei raccontato un’esperienza: quella che un autore dilettante ha vissuto cercando di dare vita a un romanzo. Un viaggio durato cinque anni: un’avventura vera e propria, da cui sono emersi degli spunti che penso possano essere interessanti.
Dicono che la trama di un romanzo, per funzionare, deve guidare il lettore verso la risposta a una domanda fondamentale. Beh, quella di Nel silenzio e nel vento è senza dubbio: “Riusciranno i due protagonisti a superare il lutto che hanno subito ricominciando ognuno la propria vita?”. È la stessa domanda che mi sono posto io qualche anno fa. E, come me, le tantissime persone che hanno subito la perdita di una persona cara in modo tragico, soprattutto se accaduto prematuramente. La scrittura di questo libro non è partita a tavolino con l’obiettivo di seguire il sogno di una pubblicazione, ma è iniziata come un’esigenza personale: quella di esprimere qualcosa che avevo dentro e che facevo fatica a esternare. Ho cercato di raccogliere le idee, di capire ciò che quel lutto mi aveva lasciato e mi aveva insegnato. Quindi, ho pensato come avrei potuto far vivere un’esperienza simile a dei personaggi che avrebbero potuto racchiudere molte più cose, infinite sfaccettature di un percorso che ha un solo passaggio obbligato: lo scorrere del tempo. Pensavo che in quattro e quattr’otto una buona storia avrebbe preso vita: non sapevo che, invece, anche in quel caso sarebbe stato necessario far scorrere parecchio tempo. E, soprattutto, non mi ero reso conto che non avevo mica le idee così chiare, in fin dei conti. Grazie alla scrittura ho scoperto nuovi aspetti di me e nuovi stimoli per andare più a fondo; allo stesso tempo, ho capito che l’elaborazione di un lutto è un percorso che trova sempre nuove dimensioni.
“Ho dovuto seguire molti corsi di scrittura, sai? Beh, ma tu sei laureato in Lettere, non ne hai certo bisogno”. Ricordo molto bene queste parole che un’autrice, un paio d’anni dopo l’inizio del mio lavoro, mi rivolse quando le raccontai del romanzo che stavo scrivendo. Mi sono rimaste impresse perché contengono alcuni stereotipi che continuano a farmi riflettere.
Passava il tempo, la prima stesura era conclusa ma quel romanzo continuava a non convincermi. Quando chiedevo a qualcuno di leggerlo mi accorgevo che c’era un problema di fondo: era come se non riuscissi ad accendere nella mente del lettore quello che c’era nella mia. Non venendone a capo, ho iniziato a seguire anche io qualche corso di scrittura privato. Mi si è aperto un mondo. Ho scoperto che oltre all’analisi critica di un’opera esistono una marea di studi sui processi creativi e sulla costruzione concreta di un testo letterario di cui non avevo mai sentito parlare. Nel mio romanzo c’erano, disseminati ovunque, difetti legati alla struttura, alla focalizzazione della vicenda sui personaggi, alla centralità del tema di fondo. E io non me n’ero mai accorto. Da quel momento si sono susseguite un paio di riscritture complete del libro, e una serie di revisioni piuttosto corpose. Insomma, l’ho rivoltato come un calzino finché non ne sono stato convinto. Allo stesso tempo, ho tratto un insegnamento importante per quello che è il mio lavoro, il docente di Lettere. Ovvero che, di qualsiasi ambito si tratti, le persone hanno bisogno di imparare non solo ad analizzare il lavoro degli altri, ma anche di creare qualcosa di proprio. E, se questa componente manca nell’offerta formativa, rischia di ottenerla solo chi, in seguito, ha le possibilità per pagarsi il superamento delle lacune pregresse.
Quando un libro è concluso non è altro che un file Word, e così era Nel silenzio e nel vento. Il percorso per trasformare un file in un libro stampato è un’avventura a sé, specialmente per un esordiente che non ha certo milioni di followers su Instagram. Pubblicare un libro, oggi, segue sostanzialmente due strade: il self publishing o un campo minato in cui ti devi preparare a ricevere un sacco di porte in faccia. Ho escluso da subito la prima opzione perché ero consapevole di non essere in grado, poi, di commercializzare il libro, e mi sono preparato a una serie di disavventure piuttosto demoralizzanti. Lo scopo di un editore, in fondo, è vendere più copie possibili di un’opera, e pubblicare quella di un ragazzo che non ha nemmeno trent’anni e una rete di conoscenze essenzialmente locali sarebbe stato evidentemente un azzardo. Sembra assurdo parlare di difficoltà ad arrivare in libreria se si pensa che in Italia ogni anno vengono pubblicati quasi 80mila titoli. Un po’ meno quando si scopre che questo mare magnum pullula di proposte editoriali a pagamento, pubblicazioni a edizione singola, contratti irregolari o addirittura assenti. L’aiuto di qualche conoscente e una buona dose di fortuna mi hanno assistito, permettendomi di incontrare un’editrice seria, affidabile e soprattutto chiara. “L’ambientazione mi piace e la trama pure: se hai pazienza qualche mese te lo pubblico in una collana della mia casa editrice”. Alla fine, complice qualche ultimo ritocchino, c’è voluto ancora un annetto. Ma poi è iniziata finalmente quella parte di storia che oggi continua nelle librerie. È stata la conclusione di un viaggio e, allo stesso tempo, l’inizio di un altro. Che è tutt’ora in corso.
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