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Prendersi cura di corpo, psiche e spirito per dare un senso alla sofferenza
Intervista a padre Guidalberto Bormolini, religioso, scrittore, tanatologo
Lo scorso 26 ottobre a Casa don Gianni, è stato ospite della rassegna “Noi fragili, noi immortali – Che la morte ci colga vivi” , organizzata nell’ambito del Progetto Pallium, padre Guidalberto Bormolini, religioso, scrittore, tanatologo.
Un incontro molto emozionante che ha saputo, con garbo, competenza e sensibilità, aprire lo sguardo, dei numerosi presenti, sul complesso tema della morte e del morire.
Ci siamo presi il piacere di conservare anche in separata sede con padre Bormolini e raccogliere la sua testimonianza di vita e di impegno sociale.
Scegliere di diventare sacerdote a trent’anni, come descriverebbe la sua vocazione?
Abbiamo un’idea romantica della vocazione, io penso che, a un certo punto della vita, ciascuno di noi sia “chiamato” a comprendere quale è il significato della sua presenza su questa terra.
Credo che in un mondo così “rumoroso” sia difficile dare ascolto alla nostra voce interiore. Le nuove generazioni, in particolare, sembrano fortemente smarrite e gli anni della pandemia non ha di certo aiutato. Qual è la sua opinione?
Credo ci sia bisogno di un nuovo ascolto delle nuove generazioni. Il progresso con la sua smaterializzazione delle relazioni ha isolato moltissimo e la narrazione televisiva e intergenerazionale che punta sempre l’attenzione sul peggio non sta aiutando.
L’esserci allontanati, proprio grazie alle narrazioni contemporanee che ci vogliono eternamente giovani, dal senso di finitudine delle nostre esistenze ha contribuito a questo smarrimento?
La morte dà senso alla vita, se fossimo davvero infiniti tutto perderebbe di valore, potremmo buttare via le nostre giornate. Pascal diceva: “Non sappiamo se c’è vita dopo la morte ma viviamo bene pensandolo”.
Nel cercare di fuggire alla morte abbiamo inventato una serie di termini, quasi che lo stesso nominarla la avvicinasse a noi. Perché questa fuga?
Nel non pronunciare la parola morte abbiamo attivato un repertorio tragicomico di definizioni che a parer mio sono ancora più drammatiche della definizione da cui fuggiamo.
“Ci ha lasciato”, sembra una scelta, una fuga, lascia una ferita aperta nell’anima di chi è stato lasciato.
“È scomparso”, dove è andato? Perché non lo andiamo a cercare?
“Fine vita”: quindi non c’è più nient’altro, non esiste l’invisibile. Se non in senso cattolico, che è il mio senso, inventatevi un trascendente laico che va oltre il corpo fisico, ma che apre alla speranza, alla pacificazione.
Morte ha in sé il significato della trasformazione, del cambiamento, del passaggio.
Se muori pensando di essere parte di qualcosa di più grande, allora non hai più il senso di oblio, di fine, ma sei parte di un processo più grande e misterioso.
Nel fuggire la morte, fuggiamo anche la malattia. Il malato diventa qualcuno da isolare, da affidare alla medicina finché è possibile. Come le cure palliative ci possono aiutare in questo processo di comprensione?
200.000 anni fa ci prendevamo cura dei defunti; le persone venivano sepolte in posizione fetale, per rinascere a vita nuova. Prendersi cura di chi non se ne accorge è un gesto sacro e quello che ci ha costituito come umani. I grandi interrogativi che hanno permesso all’umano di evolversi erano interrogativi sulla morte.
Oggi la ricerca medica, la medicina sempre più accurata, i nuclei familiari sempre più ristretti, la narrazione sociale, la riduzione dei riti, ci hanno allontanato sempre di più da quel sentire. Così, quando una persona non è più curabile, perde in un certo modo la sua identità di persona e di paziente.
Le cure palliative, con il loro approccio olistico, sono una grande occasione per ridare dignità e valore all’individuo nell’interezza del suo ciclo di vita e morte. Dobbiamo comprendere che la persona va curata nella sua interezza, corpo, psiche e spirito. La definizione “prendere in carico” ormai utilizzata nei confronti di ogni genere di paziente innesca già un grande equivoco circa il compito della medicina. Non prendo “in carico”, prendo “in cura”. E la cura è amore. Va ricucito l’abbraccio di cura, anche e soprattutto quando una persona si sta avvicinando alla morte. Va accompagnata nelle sue esigenze sia fisiche che dell’anima.
Cosa possiamo fare per cambiare le cose?
Prendere coscienza della nostra mortalità. In Italia, per ricoveri inappropriati di persone che dovrebbero entrare in cure palliative spendiamo 60% del budget sanitario.
Dovremmo curare tutti, a partire dagli operatori sanitari, la nostra interiorità, attivare il linguaggio del cuore, il paziente sente i pensieri del cuore
Dovremmo vivere la vita con consapevolezza e arrivare anziani “sazi di vita”, felici che il nostro invecchiare porti con se saggezza e non attaccamento al corpo.
Deve essere un cambiamento interiore, che parte dalle parole e procede con azioni di cura e attenzione all’altro non solo quando sta per morire, ma lungo l’intera strada della nostra esistenza.
Biografia
Guidalberto Bormolini sin dalla gioventù, su invito di suo padre spirituale e maestro di meditazione, si dedica all’accompagnamento spirituale nella malattia grave. Da anni si occupa di educare a vedere la morte con altro sguardo, tenendo conferenze, corsi e seminari nelle principali città italiane. Coordina un gruppo di formatori che si occupa – presso Ospedali, ASL, Hospice, RSA, ed altre istituzioni – della formazione del personale sul tema dell’accompagnamento al fine vita con particolare attenzione alla spiritualità. È membro della Società Italiana di Cure Palliative.
È presidente dell’Associazione “Tuttoèvita” ets, membro della Federazione Cure Palliative, che offre un volontariato in accompagnamento spirituale nella malattia grave e nel lutto, anche attraverso l’uso di pratiche meditative. TuttoèVita propone anche percorsi di formazione individuale professionale e di gruppo per avvicinarsi al tema della morte e della preparazione personale ad essa. L’Associazione è attiva soprattutto in Toscana e si avvale del patrocinio e della collaborazione di numerose istituzioni. È docente al Master: «Death studies & the end of life. Studi sulla morte e il morire per il sostegno e l’accompagnamento», presso l’Università degli Studi di Padova e al Master in «Cure palliative e Terapia del dolore per psicologi» dell’Università di Torino. Ha fondato ed è direttore del «Master TuttoèVita in accompagnamento spirituale nelle malattia e nel morire». Dal 2017 è consulente dell’Ospedale pediatrico Meyer per iniziative di sensibilizzazione sui temi della spiritualità nella cura. Ha ispirato e fondato con la SICP, la FCP e la fondazione Luce per la Vita la Scuola di Alta Formazione per assistente spirituale in équipe di cure palliative. È co-promotore e docente al Master “La Gentilezza nella relazione di cura in età pediatrica” dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Meyer di Firenze.
L’intento dell’Associazione TuttoèVita è quello di promuovere un cambiamento culturale, di linguaggio e di comportamento riguardo alla morte, e anche riguardo alla vita contemplata dal punto di vista del traguardo finale. Inoltre, nel rispetto delle convinzioni e dei percorsi personali, proporre occasioni esperienziali che permettano di riscoprire la propria dimensione spirituale.
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