Il pacco della cioccolata svizzera lo portava Camillo, quello dei miei figli che apriva la fila. Degli altri, il secondo aveva i biscotti di Novara e l’ultimo una bottiglia di Moscato Saracco, per fare festa a Pasqua. Sembravamo i Re Magi, più uno e fuori stagione, alla ricerca del “messia degli Zampognari”, avvolti nei profumi della primavera molisana che pareva cedere il passo a un’estate precoce.
Nell’andare notturno dei chilometri, mi ero fatto compagnia con l’idea di quanto avrei trovato: amavo pensare a un laboratorio di quelli con la loro bella vetrina pitturata di bianco fino a una certa altezza. Quelle che, magnetiche come una calamita, ti attirano fino a sbatterci il naso per sbirciare, in punta di piedi, chi è dentro a lavorare. Me la vedevo affacciata su un vicolo, stretto fra case di sasso appiccicate l’una all’altra per fare scudo al vento freddo delle Mainarde. Fu invece una campagna, che dava l’idea di essersi risvegliata da un pezzo, ad accoglierci là dove l’atlante stradale dell’Automobile Club d’Italia ci aveva condotti.
All’ombra di un pergolato che faceva da cornice ad un pesco in fiore, qualcuno aveva l’aria di essere in attesa di una visita. Sulla panca, al suo fianco, un ingombrante vassoio di legno d’ulivo reggeva un fiasco impagliato e qualche bicchiere messo a testa in giù. Che aspettasse noi fu chiaro quando, senza alzare gli occhi dal fuscello che girava tra le mani, con voce rauca e un poco affaticata fece: “siete voi lo svizzero?” Mastro Gerardo, il padre di tutte le zampogne, si era manifestato. Due giorni di viaggio col mio vecchio “camperone” cigolante, quasi mille chilometri messi lì uno sull’altro, per sentirmi dare dello “svizzero”. A me, nato sul confine …
Conosceva il mio maestro, uno dei più innovativi zampognari degli anni ’90. Ticinese, uomo del sud … ma della Svizzera. Come in ogni altro Paese, il meridione (tanto più sensibile, allegro e musicale) “dà la birra” al proprio settentrione. Il mio amico svizzero era famoso proprio per la sua “meridionalità”, oltre che per la bravura.
Gerardo voleva sentir dire della Svizzera: se in quel periodo dell’anno facesse freddo o caldo, se parlassero “germanico”, se qualcuno andasse alla messa la domenica.
Parlavo, inventavo risposte, non capivo tutto quell’interesse, ma non volevo deluderlo. Di lì a poco, però, il discorso si fece chiaro: ne uscirono lacrime e ricordi quando l’orizzonte dalla Svizzera si allargò su quello di un “grande nord”. Un buco nero nel quale finì deportato durante gli anni dell’ultima guerra. Mentre descriveva luoghi e situazioni muoveva le mani nell’aria, come a disegnare i confini di un destino che, nonostante tutto, lo aveva riportato a casa.
Mani che non mi lasciarono indifferente. Nel mio lavoro avevo il pallino di dare un’età, a pazienti che incontrassi per la prima volta, osservandole. Le sue sembravano parlarmi più delle fatiche subite che non dei loro ottant’anni, a cui arrivai attraverso la scorciatoia dei suoi racconti di prigioniero.
Incuriosito, più che sorpreso, da quello che i ragazzi gli avevano “mollato” senza tante cerimonie, con tono solenne, forsanche per interrompere il flusso doloroso dei ricordi, fece un annuncio. Prima di ogni altra cosa, avremmo brindato al nostro arrivo col vino suo, “fatto a casa”. La “sua signora”, di lì a poco, ce lo avrebbe offerto. Quand’ebbe gustato l’ultimo goccio di quel rosso, piuttosto aspro, con un cenno del bicchiere, tenuto sospeso tra indice e pollice della mano sinistra, indicò una porta al di là del pergolato.
Tirata in azzurro, portava i segni di un tempo più giovane e forse più amico.
Cos’era quel gesto arcaico? L’invito, ad entrare in un mondo che, forse, sarebbe divenuto anche il mio? Poggiata la mano sul catenaccio unto di grasso messo da poco, non mi decidevo ad aprire. Temevo di andare a sbattere contro qualcosa più grande di me, irraggiungibile. Quando finalmente il cigolio dei cardini accompagnò i miei passi oltre l’uscio, l’odore del legno segnato dal tempo mi tolse dall’incertezza.
Ad altezza d’uomo pendeva una lampadina: la poca luce cerea filtrava da una spessa patina di polvere bruna, vecchia di chissà quanto tempo. Stava a piombo su un bancone da falegname messo perpendicolare a chi entrava e che poggiava le quattro robuste gambe su un pavimento nascosto da riccioli e segatura di legno. La morbida coltre pareva avvolgere affettuosamente ogni cosa che non si trovasse stretta nella morsa o chiusa tra le ganasce del tornio. Una grossa cassa di legno, annerito forse da una mano di catrame, spuntava da un mucchio di trucioli alla sinistra del tornio. In un angolo quasi buio una certa quantità di masselli di legno, particolarmente diritti, stava in piedi poggiata alla parete, i più lunghi dietro. Davanti a loro un buon numero di più corti e parecchio larghi.
Non capivo cosa avessi davanti: disordine o magia? Un altro mondo, forse.
Una mano sulla spalla mi riportò alla realtà: in fondo mi trovavo lì per ritirare quanto il mio maestro aveva ordinato con una semplice telefonata qualche mese prima, e Mastro Gerardo aveva solo un affare da concludere. Invece no: quella mano, inconsapevolmente, mi stava guidando alla conclusione di un cammino iniziato molti anni prima.
Il tempo era quello della Novena dell’Immacolata. Sul fare del giorno capitava di levarmi di corsa dal letto per guardare in strada, oltre la patina ghiacciata della condensa sui vetri. La stufa, in cucina, andava a morire piuttosto presto. Più che vedere era sentire, assaporare quelle melodie dolci, e forse anche malinconiche, che gli zampognari arrivati da chissà dove portavano in dono ogni anno.
Senza che nessuno li chiamasse. Un’apparizione. Per il cuore di un bambino la delizia di un attimo.
Annunciavano il Natale, quello del piatto messo sotto la finestra nella camera dei miei genitori che il Bambin Gesù avrebbe riempito con mandarini, qualche torroncino e un gioco. Oppure un libro, come di solito chiedevo scrivendo la “letterina” quindici giorni prima, accompagnata sempre da un “bel disegno” come piaceva alla nonna. Il mio Natale, quello che cominciava con un risveglio dolce portato dalla nenia, di solito “Piva Piva l’oli d’uliva”, che mio papà cercava di imbastire con l’armonica a bocca. La mantella del ‘15-‘18 di suo padre gettata sulle spalle e in testa un vecchio Panizza sgualcito: ci regalava, pur da zampognaro “tarocco”, la magia di una festa modesta nei doni, ma ricchissima in affetto. Sempre.
La musica di quei momenti sarebbe diventata la mia passione. Mi ritrovai a collezionare note su note, dischi su dischi di chi raccontasse il Natale, in ogni forma, modo o luogo. Ma non bastava. Presto divenni un “suonatore natalizio”. Con il mio sax, insieme agli amici della Banda, davo colore alle notti di “novena” in giro per la Valle, scimmiottando il più possibile la cadenza delle zampogne. Fu Teresa, mia sorella, a spingermi oltre. Diventata svizzera per amore, seppe di un tipo che in Ticino, in un paese vicino a lei, insegnava cornamusa e zampogna. Mi regalò il primo anno di corso. Alla fine del secondo anno, viste le doti dell’allievo, l’Ilario Garbani (il maestro) prenotò uno strumento nuovo che potesse rispondere alle mie esigenze. Avevo mani grandi e desideravo una zampogna di Gerardo Guatieri liutaio in Scapoli, Molise.
Ed eccomi lì, tanti anni dopo a veder realizzato il sogno: prendere dalle mani di mastro Gerardo la sua creatura che sapeva ancora di cera. Una “32” in Fa diesis, lucida e con la sua bella camera d’aria rivestita in vello d’agnello, sintetico. Me la offrì con la stessa dolcezza con cui si porge un bimbo da tenere in braccio e, con un velo di malinconia, accennò a problemi di salute che non gli avrebbero consentito di farmene sentire la voce. Aveva appena “fatto i bai bai” diceva. Di bypass coronarici si trattava.
“Provatela voi” mi disse. Non vedevo l’ora.
Emozionato, ma tronfio dei successi di due anni di studio, la imbracciai con fare da esperto. Gonfiai l’otre a volume ottimale, feci pressione col braccio e, senza problema alcuno, ne uscirono… una pernacchia dietro l’altra. Lo sconcerto sul viso di Mastro Gerardo era, probabilmente, lo specchio del mio sconforto.
Appena si riprese dall’imbarazzo, esclamò: “Ma chi minchia vi ha imparato?”.
Avrei voluto piangere. Senza darlo a vedere, accelerai sul commiato. Pagai quanto pattuito, chiusi l’affare con una stretta di mano e presi la porta. I ragazzi mi seguirono col “magone”.
Appena in camper Cristina, la compagna di sempre, notò che qualcosa non fosse andato per il verso giusto.
“… E la ciaramella” disse, “non te l’ha data?”.
Non avevo nessuna intenzione di tornare indietro, ma la sua insistenza superò la mia vergogna di zampognaro fallito.
“Forse signor Gerardo ha dimenticato di darmi la ciaramella?” riuscii a dire fissando i trucioli per terra.
Senza parlare si chinò di lato, aprì il cassone di legno scuro e si mise a frugare. Quando risalì aveva tra le mani qualcosa che poteva essere una ciaramella, ma la polvere di cui era coperta la rendeva più simile a un pezzo di legno appena sgrossato.
“No, no grazie. Lasci stare. Va bene così. Arrivederci” e me ne andai.
“Ma come, non l’hai ancora?” disse Cri. Senza ascoltare le mie considerazioni, sentenziò lapidaria che la cifra comprendeva anche la ciaramella: non saremmo andati a casa senza. Con mille scuse e poca convinzione dissi a mastro Gerardo che la “mia signora” l’avrebbe custodita come prezioso ricordo del viaggio.
Se pochi minuti prima mi aveva consegnato la zampogna con delicatezza e orgogliosa soddisfazione, ma senza particolari cerimonie, per quel pezzo di legno pieno di polvere, invece, parve seguire un rituale ben preciso. Si chinò di nuovo sulla cassa dalle assi scure, ne tirò fuori quella ciaramella e la posò sul bancone. Prese le mie mani, le aprì e, stringendo lo strumento nelle sue, lo appoggiò sul mio palmo per poi richiuderle. In quel gesto stava tutto l’amore di chi stesse regalando un pezzo di sé, un bene prezioso da cui non si fosse ancora separato. Era il momento giusto o forse era arrivata la persona giusta.
Mi vergognai dei pensieri meschini che poco prima non mi avevano fatto vedere oltre e lo abbracciai.
Non divenni mai un vero suonatore di zampogna. Stregato, innamorato di quella ciaramella magica, mi ritrovai ciaramellista.
Per anni tornai a trovarlo. “Signore delle cime” del maestro Bepi De Marzi era quanto dovevo suonargli, ogni volta. “Suonate come nu professore” diceva commosso e aggiungeva “non è la ciaramella che suona, ma la vostra anima”. Quel pezzo di legno, che volle fosse mio, è stato davvero la voce della mia anima, oltre che uno straordinario portafortuna. Grazie a lui ho girato l’Italia e l’Europa per concerti e spettacoli, ho suonato in teatri, chiese, basiliche, piazze. Ho conosciuto persone splendide e musicisti generosi, che mi hanno contagiato con la loro umana sensibilità. Il Maestro Ennio Morricone, in una telefonata di cui conservo l’affettuoso calore, mi disse: “Hai suonato il mio Gabriel’s oboe col cuore e tanta passione”.
Quando, pieno d’orgoglio, mostravo a mia mamma, ormai novantenne, le pagine web in cui ero citato per la mia musica, dopo un profondo respiro sentenziava: “Ti ve in gir a faa l’asen e il za tücc, che ti fe el dutor ul za nesun. Per cosa a to fai stüdiaa?” (Vai in giro a fare l’asino e lo sanno tutti, che fai il dottore non lo sa nessuno. Per cosa ti ho fatto studiare?)
Doveva smitizzare, sempre.
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