Per secoli gli anziani hanno esercitato nelle vaste famiglie allargate e nelle comunità del passato l’autorevole compito di depositari del patrimonio di conoscenze e saperi in cui consisteva la cultura delle antiche società. Poi, inurbamento e industrializzazione li hanno espulsi da quel ruolo e relegati ai margini dei flussi vitali di società sempre più caratterizzate dalla dominanza della famiglia mononucleare, lasciando loro, tutt’al più, qualche esigua attività di supporto alla parte attiva della popolazione come la custodia più o meno occasionale dei nipoti. Nel primo caso, quello delle antiche società, e pure nell’altro, della società urbana e industriale delle origini, si trattava però di presenze numericamente limitate: piccole quote, pochi gli anziani e rari i vecchi, nell’insieme demografico.
Nell’ampio arco di tempo in cui il profondo cambiamento dei Paesi occidentali si consolida e si estende e, in particolare, nel caso italiano nell’ultimo mezzo secolo, l’azione di due concomitanti dinamiche, il sostenuto calo della natalità e l’accentuato allungamento della vita, hanno radicalmente mutato il profilo demografico della società: sempre meno bambini e giovani, sempre più anziani e vecchi. I primi due grafici riguardanti, rispettivamente, la composizione della popolazione italiana nell’anno dell’unità (1861) e in quello dell’ultimo censimento (2011) ben evidenziano questo radicale cambiamento.
Nel primo grafico, la distribuzione per classi di età quinquennali, crescenti dal basso all’alto, della popolazione assume la forma di una piramide (e infatti, così si chiamava in passato questo tipo di grafico: “piramide delle età”): alla base le numerose classi infantili, che vanno poi rastremandosi con l’aumentare dell’età. È la classica conformazione demografica di una società preindustriale. Nel secondo grafico (2011), la piramide è scomparsa. Indipendentemente dal fatto che in un secolo e mezzo la popolazione sia quasi triplicata, i processi di industrializzazione e di inurbamento ormai compiuti, unitamente all’allungamento della vita e al calo della natalità in atto, hanno rivoluzionato la composizione demografica, come il grafico ben evidenzia, generando l’immagine di una sorta di salvadanaio: le componenti più folte sono ora quelle di età intermedia, più consistenti quelle anziane, mentre quelle giovanili hanno qui un andamento inverso al precedente, perché, contrariamente a prima, sono le classi più giovani quelle numericamente più deboli.
Altrettanto interessante è però anche il confronto tra il secondo e il terzo grafico, che evidenzia il progredire della dinamica in un solo decennio, l’ultimo (2011-2021). Come si può osservare, i cambiamenti sono ben percepibili: la natalità non migliora, anzi, la prima classe (0-5 anni) si contrae ulteriormente, mentre l’ulteriore e accentuato invecchiamento è evidenziato non solo dall’aumento complessivo della componente anziana (ultra 65enne), ma anche dallo slittamento in su di un decennio delle tre classi di età più folte: da 35-49 anni nel 2011 a 45-59 anni nel 2021.
Tra tutte le considerazioni che questi importanti cambiamenti suscitano, limitiamoci per brevità a evidenziarne una. È divenuto ormai non soltanto impossibile, ma del tutto inimmaginabile che la presenza nella società di una tanto vasta e crescente area anziana possa vivere in condizioni di marginalità sociale, riconosciuta soltanto come soggetto di bisogni o, peggio, di consumi.
Questa impossibilità è innanzi tutto percepita proprio dagli interessati, i quali, pur esprimendo con l’avanzare dell’età crescenti bisogni cosiddetti passivi (sanitari, assistenziali), ancor più largamente manifestano bisogni attivi di benessere, di salute, di socializzazione, di protagonismo, di partecipazione. È perciò l’attivismo (activity), in senso ampio, a dare nuovo senso e rimotivare alla vita nell’età della quiescenza, quando i Leitmotiv dei lunghi decenni precedenti sono venuti meno, a mantenere quelle persone non ai margini ma dentro la società.
Occorre poi considerare che i bisogni passivi (che sono per lo più bisogni materiali) e i bisogni attivi (che sono invece bisogni relazionali) appaiono, in qualche modo, tra loro concorrenti: se per un verso, il crescere dei primi attenua, comprime fin quasi a smorzare i secondi, per un verso opposto, è proprio la valorizzazione e la soddisfazione dei bisogni attivi che esorcizza, contiene e dilaziona quelli passivi. Cioè, detto più semplicemente, sono la buona salute psico-fisica e un ritrovato senso dell’esistenza i presupposti dell’attivismo anziano.
Non è certo questa un’acquisizione recente, ma è una realtà che ha alle spalle almeno un cinquantennio di riflessioni, studi ed esperienze; è sufficiente ricordare che in questi nostri territori fin dal 1974 l’associazione omegnese Pro Senectute è stata antesignana dell’attivismo anziano, inteso nel duplice significato di benessere della persona e di risorsa per la comunità.
Definire i bisogni attivi come bisogni relazionali comporta anche un tanto preciso quanto palese significato: è entro contesti di rapporti sociali che questi bisogni trovano risposta ed è perciò lì che l’attivismo assume concretezza fino a farsi spesso anche risorsa per la propria comunità. È nella socialità che la persona anziana trova risorse per fronteggiare la sfida dell’invecchiamento e contenere i limiti conseguenti il radicale cambiamento di vita imposto dal pensionamento e gli acciacchi dell’età che avanza. Alle forme spontanee di socialità, quelle delle reti parentali e amicali, sempre più vanno poi aggiungendosi modalità strutturate, spesso auto organizzate, in gruppi e associazioni in cui l’offerta di occasioni mirate al benessere psico-fisico e di impegno è non solo più ampia e variegata, ma più razionalmente concepita e programmata.
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