Nel secondo numero 2023 di questa rivista si è parlato di “giustizia negata” a donne vittime di violenza, negata in quanto sembra configurarsi in vera e propria “ingiustizia”, un percorso ad ostacoli che esclude quasi completamente possibilità di tutela delle donne che decidono di denunciare, trasformando l’attesa del processo in un periodo tormentato e di grande sofferenza. La lentezza del procedimento rispetto a una denuncia (alla quale corrisponde mediamente un’attesa del processo pari a due anni), ha gravi implicazioni per la donna maltrattata, che in tale intervallo deve “arrangiarsi da sola” per vivere in sicurezza, maturando nel frattempo una buona dose di sfiducia nelle istituzioni e nell’ordinamento giudiziario.
Ma un nuovo modello di giustizia si sta facendo strada: si tratta della giustizia riparativa o restorative justice che fa riferimento a un modello nato dal bisogno di un procedimento diverso rispetto a quello tradizionale nel quale la vittima assume un ruolo marginale, mentre l’autore del reato è messo al centro dell’attenzione.
Salita alla ribalta alla fine degli anni ’80, la restorative justice nasce da modelli sperimentali emersi in Nord America e consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone. Da ciò consegue l’obbligo, per l’autore del reato, di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta.
La giustizia riparativa è una forma di risoluzione del conflitto, complementare al processo, basata sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro, con l’aiuto di un soggetto imparziale, ovvero il mediatore.
Con la giustizia riparativa non si cerca di ottenere la punizione dell’autore del reato, ma piuttosto di risanare quel legame con la società spezzato dal fatto criminoso, mettendo al centro la dimensione personale e sociale, con un approccio ribaltato rispetto a quello tradizionale. Instaurandosi così un contatto diretto tra vittima e aggressore, la prima può esprimere i propri sentimenti ed emozioni in relazione alla lesione subita, mentre al secondo viene consentita l’opportunità di responsabilizzarsi. Ciò metterà in atto il coinvolgimento attivo della vittima, dell’agente e della stessa comunità civile nella ricerca di soluzioni che possano compensare i bisogni e i danni scaturiti a seguito del reato.
A tal fine la giustizia riparativa comporta l’attuazione di specifici programmi che consentano a tutti i soggetti interessati di fare la loro parte. in un contesto di partecipazione libera e consensuale, attiva e volontaria.
In Italia la giustizia riparativa acquista per la prima volta una disciplina organica grazie alla Riforma Cartabia (d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, attuativo della l. 134/2021, che modifica la disciplina processuale e penalistica, con effetti anche sul delicato tema della violenza sulle donne), la quale dà attuazione alle molteplici disposizioni presenti in ambito europeo e internazionale.
È stata fortemente rivendicata dalla Cartabia anche in chiave culturale, in prospettiva di una giustizia non più vendicativa, ma basata sull’argomentazione, sul ragionamento, sul raggiungimento di una conciliazione.
Con queste premesse, la giustizia riparativa, prevista dalla riforma Cartabia, si può conciliare con i casi di violenza maschile sulle donne? Il parere delle esperte che si occupano di questo fenomeno, dalle giuriste all’ex presidente della Commissione d’inchiesta al Senato sul femminicidio, Valeria Valente, alle operatrici dei centri antiviolenza, è unanime: la conciliazione in questi casi non solo non è consigliata, ma è contraria alla legge, in primis alla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013.
Nell’ordinamento internazionale si dice chiaramente che il contesto di violenza domestica e violenza di genere preclude l’utilizzabilità di questi strumenti di mediazione, sia perché le parti non sono in posizione di parità di potere (nella relazione violenta la donna è sempre vulnerabile), sia perché la mediazione stessa impone un contatto che espone le vittime a ulteriori pericoli e produce “vittimizzazione secondaria”.
Afferma la senatrice Valeria Valente: “La giustizia riparativa non è assolutamente possibile, va contro lo spirito della Convenzione di Istanbul che vieta qualsiasi forma di possibile accordo tra le parti. E la Convenzione è contraria non solo alla mediazione ma anche a forme di conciliazione”. E inoltre: “… lo spirito della riforma è giusto e andava perseguito. Andavano però fatte eccezioni, tra le quali far rientrare i reati relativi alla violenza maschile. Nella relazione violenta, infatti, la donna è il soggetto vulnerabile ed è evidente che si parta da una posizione profondamente sperequata”. Una sede possibile di intervento per rimediare a questo errore, secondo Valeria Valente, è quella del “Codice Rosso”, al quale è giunto il momento di apportare quelle modifiche che possano migliorarne il testo.
La contraddittorietà della giustizia riparativa rispetto alla Convenzione di Istanbul è sottolineata anche da Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea Onlus e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama: “La giustizia riparativa non è assolutamente contemplata dalla Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia. Ci auguriamo vivamente che il nostro Paese faccia riferimento per tutto il suo sistema giudiziario solo al quadro giuridico, tra l’altro cogente, della Convenzione di Istanbul. L’articolo 48, infatti, vieta non solo forme di giustizia riparativa ma anche tentativi di mediazione nascosta che si verificano molto spesso nella prassi, quando si cerca di far avvicinare un maltrattante a una donna vittima di violenza, dando per scontato che siano pari. Sono pari dal punto di vista giuridico, ma di fatto, dal momento in cui c’è lo sbilanciamento totale della relazione, perché una persona è violenta e l’altra no, non si possono mettere a tavolino assieme”.
E ancora, secondo una nota del 22 settembre scorso della Fondazione Pangea e della rete antiviolenza Reama: “La ricostruzione del legame spezzato tra vittima, reo e comunità – afferma sempre Simona Lanzoni – pensiamo si debba fare quando vi è una relazione tra pari mentre la violenza presuppone una relazione di subordinazione della donna che subisce e di un uomo che ne abusa in diverse forme. Pertanto non si è in una relazione tra pari che permette di scegliere liberamente e con reciprocità di ricostruire. Le donne non possono essere il campo di riconciliazione di chi per anni le ha svilite, offese, picchiate o violentate e infine le ha uccise. Le donne – prosegue – devono sapere che lo Stato e la giustizia garantiscono loro sicurezza, protezione, percorsi che permettano a loro di scegliere la libertà senza condizioni e che consentano loro di ripartire da sé senza l’ombra dell’autore di violenza. Altrimenti come possiamo dire alle donne di fidarsi dello Stato?”.
Aggiunge Cristiana Coviello, avvocata della rete Reama: “Lo stesso meccanismo che porta alla violenza porta alla disparità di posizioni e di potere. Le violenze, nella maggior parte dei casi, avvengono tra partner ed ex partner. Le relazioni di legame affettivo che hanno portato alla violenza vedono la donna in posizione subalterna. Se queste posizioni sono a monte, per cui una donna, come sappiamo, ci mette del tempo a uscire dalla spirale di violenza, la vittima nella giustizia riparativa non troverà uno spazio giusto e una giusta collocazione”.
D’altro canto, prosegue l’avvocata, “credo nei percorsi per gli uomini maltrattanti, credo che siano necessari, per ogni uomo rieducato c’è una vittima in meno. Ma l’uomo prima deve riconoscere di aver sbagliato, poi si potrà discutere di riparazione”.
E da ultime, le parole di Elisa Ercole, presidente di Differenza Donna, una grande Associazione con centinaia di socie e un ampio ventaglio di iniziative, e socia fondatrice dell’Associazione nazionale D.I.Re. – Donne in Rete contro la violenza, la rete nazionale dei Centri antiviolenza e Case delle donne, di cui è stata parte fino al 2019: “Come donne impegnate nei Centri antiviolenza da oltre 30 anni siamo profondamente preoccupate per la incolumità delle donne in uscita dalla violenza. Non solo non è chiaro il percorso di specializzazione di queste figure che dovrebbero facilitare i percorsi, ma non è esplicitato chi debba essere a formare e come realizzare un’azione sistemica nell’immediato (e siamo già in ritardo) e in itinere. Affermiamo con forza che solo noi donne dei Centri antiviolenza abbiamo una storia di lavoro continuo per la decostruzione degli stereotipi e dei pregiudizi patriarcali che sono gli ostacoli che impediscono a qualunque professionista di vedere la violenza e di tenerne conto perché le donne possano avere giustizia ed essere protette davvero dalla violenza insieme ai loro figli. Non ci rassicura l’esclusione in caso di misure cautelari perché sappiamo che in tutti gli episodi di femminicidio la violenza non era stata presa in considerazione o ancora non denunciata. Chiediamo riforme immediate e un tavolo con la nostra presenza per recuperare ad un danno già realizzato.”
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Fonti
- La giustizia riparativa alla luce della nuova riforma” in DIRITTO.IT
- Differenza Donna, Comunicato stampa del 23/01/2023
- Simona Rossitto, La giustizia riparativa nei casi di violenza contro le donne è contro la legge, alleyoop@ilsole24ore.com, 20 Febbraio 2023
- Noemi De Luca, Riforma Cartabia: gli effetti sulla violenza di genere, in Mar dei Sargassi.it, 4 aprile 2023
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