Magazine Alternativa A Numero 1
Anno 2024
Dirottato il transito delle cicogne dal territorio nazionale
13 Marzo 2024

In questo Paese abbiamo delocalizzato di tutto: non si fanno più automobili, vestiti, gomme da masticare, frullatori, penne a sfera, telefoni, trenini elettrici, viti, bottoni, monopattini, puntine da disegno, bambini

Nel precedente numero di Alternativa, nell’articolo di questa stessa rubrica – ove si raccontava dell’inverno demografico che attanaglia questo Paese e, in particolare, del ruolo che su esso esercita una denatalità aggravata nell’ultimo ventennio ma che si protrae da mezzo secolo – si è dovuto lasciare a margine alcune questioni nodali[1] che è ora opportuno riprendere e provare a sviluppare.

Si diceva che, oggi, la prima causa della scarsa natalità è rappresentata dalla crescente debolezza delle coorti in età feconda, dovuta alla denatalità dei decenni precedenti, che ha provocato un progressivo degiovanimento della popolazione complessiva e, segnatamente, una continua contrazione della compagine di potenziali madri nell’età convenzionalmente considerata maggiormente riproduttiva (quella tra i 20 e i 49 anni). I dati del 2022[2] evidenziano questa progressiva riduzione: se, ad esempio, dividiamo in due parti uguali quella coorte, 20-34 anni e 35-49 anni, possiamo osservare che, su base nazionale, la parte più anziana ha dimensioni più consistenti della più giovane nella misura di 126 donne nella maggiore (35-49 anni) ogni 100 donne della minore (20-34 anni); ancora più accentuata la differenza nel VCO, 132 ogni 100.

Nel VCO, nel 2022 si sono registrate 774 nascite, nel 2001 erano state 1.269; la componente d’età 0-14 anni era nel 2022 il 10,4% del totale della popolazione (11,7% in Piemonte), nel 2001 era l’11,9% (12,1% in Piemonte)[3]. Sempre nel 2022 la componente d’età più feconda – femmine e maschi tra i 20 e i 49 anni – rappresentava nel VCO il 39,6% del totale, nel 2001 il 42,5%. I dati del censimento 2022 hanno fatto registrare un ulteriore record italiano negativo di natalità: 393mila nati, il peggiore dato dopo l’Unità d’Italia, 7mila in meno rispetto al 2021 (-1,7%) e 183mila in meno (-31,8%) rispetto al 2008.

Fin qui la logica dei numeri, pura aritmetica: meno nati ieri = meno giovani oggi = meno genitori = meno figli. Il problema aritmetico appare evidente e condiziona pesantemente il quadro demografico, ma non si tratta, palesemente, soltanto di aritmetica. La riduzione nel tempo del numero di figli per donna è un fenomeno osservabile in una prospettiva di dimensioni storiche. Il Total Fertility Rate (TFR), il nostro Tasso di Fecondità Totale, cioè il numero medio di figli che una donna in età feconda (qui 15-49 anni) genera, si è progressivamente ridotto dai 4,96 figli per donna dell’anno dell’Unità, il 1861, al 4,53 del 1900, al 2,98 del 1935, al 2,83 del 1948, al 2,70 del 1964 (anno del picco del baby boom), all’1,97 del 1977 (primo anno nel range inferiore ai due figli per donna), all’1,48 del 1984 (primo anno sotto a 1,5), all’1,46 del 2010, all’1,25 del 2022.

Detto diversamente, il TFR italiano in poco più di un secolo e mezzo è calato del 74,8%[4]. Nella graduatoria europea, l’Italia in questi anni contende a Malta e Spagna, sul filo dei decimi di punto, l’ultimo posto; idem in quella mondiale, avendo dietro soltanto il Giappone, la Corea e micro stati come Monaco, Andorra e Saint-Pierre et Miquelon. Posizionamenti, quindi, di grande rilievo internazionale, ma in negativo.

Il fenomeno della contrazione della natalità è osservabile non solo in prospettiva storica, ma anche su base geografica, perché comune a buona parte dei Paesi in cui è attivo un processo di sviluppo economico più o meno avanzato. Nel ventennio 2001-2021, il TFR è diminuito del 24% a Malta, del 16% in Finlandia, del 7% in Portogallo e del 5% nei Paesi Bassi, del 3% in Spagna e Francia e dell’1% in UK. Ma anche la Turchia ha visto il proprio TFR scendere nello stesso arco temporale del 29%[5]. Però, complessivamente, nel decennio tra il 2001 (1,43 nascite per donna) e il 2021 (1,53 nascite per donna), nella UE il TFR è cresciuto dell’8%, grazie agli aumenti registrati in Paesi come Repubblica Ceca con il 59%, Romania (43%), Slovacchia e Slovenia (entrambe 36%).

Tutt’altra musica se guardiamo ai Paesi che vivono una condizione precedente o aurorale allo sviluppo economico. Sono tutti africani i primi sei Paesi della graduatoria con il più alto tasso di natalità (nati ogni 1.000 abitanti), tra il 47,28 del capolista Niger e il 40,53 della Repubblica Democratica del Congo, ma sono anche tutti africani ad esclusione di uno (l’Afghanistan) i ventitré che seguono nel range 39-30 nati ogni 1.000 abitanti[6].

Nel considerare le dimensioni storica e geografica abbiamo rimpolpato la constatazione, puramente aritmetica, da cui siamo partiti, con un altro criterio che è invece di natura culturale: detta chiaramente, la dinamica aritmetica è motivata da ragioni storico culturali che si declinano secondo la variabile geografica. Ma, ciò detto, subito si comprende che questo è soltanto un primo passo, una prima perimetrazione di un fenomeno, la denatalità, che appare originato da una grande pluralità di fattori, di volta in volta combinati secondo le diversità dei contesti storici e geografici. Fattori o variabili, che dir si voglia, che orientano o incanalano scelte avvertite come personali, ma in realtà di dimensione collettiva, quindi sociale, perché fortemente condizionate da caratteri di contesto.

Studiosi e osservatori indicano al primo posto, per l’Italia, le condizioni economiche che interessano la parte preponderante della società e che si traducono nella difficoltà o impossibilità a conciliare la volontà di avere figli con le condizioni materiali dell’esistenza: economiche, di studio, di lavoro. Un sondaggio segnala tra le cause della bassa natalità gli stipendi troppo bassi (70%), l’instabilità lavorativa e la precarizzazione del lavoro (63%); un altro, la fatica e i costi dei primi anni di vita di un neonato (40%), la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia (33%), la mancanza di supporto e le carenze del welfare.

L’elenco può continuare: latitanza delle forme di sostegno allo studio[7], che ostacola e dilata i tempi dei percorsi formativi, ritardando l’autonomia economica e abitativa dei giovani; permanenti difficoltà di accesso al mercato del lavoro per le giovani generazioni (tasso di disoccupazione giovanile 27,4% a ottobre 2023, giovani neet 19% a maggio); precarietà contrattuali e bassi salari cui si accompagnano ancora divari di genere[8], accentuati squilibri territoriali, blocco della mobilità sociale[9], bassa occupazione femminile (42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata), cronica carenza di servizi e agevolazioni a sostegno della natalità e della famiglia[10].

Vi sono poi comportamenti che si dicono figli di orientamenti e scelte personali, ma da cui non paiono estranee le sollecitazioni implicite nelle difficoltà strutturali. Non tutte le donne hanno figli, anzi aumenta il numero di chi non ne ha; certamente anche perché non sempre averli è un progetto di vita, ma non solo. Spesso la decisione di avere un figlio, per scelta o per forza, viene procrastinata nel tempo; ritarda l’età media del primo parto, che nel 2022 è salita a 32,2 anni, e ciò limita la possibilità di avere altri figli.

Dice Gian Carlo Blangiardo in un’intervista a ‘Italia Oggi’: “Oggi il tasso di fecondità è di 1,25 figli a donna, siamo proiettati verso la cultura del figlio unico (…). Nei primi tre mesi del 1943, in piena seconda guerra mondiale, i nati sono stati 240mila, nei primi tre mesi del 2023, senza guerre e con condizioni di benessere insperate negli anni ’40, i nati sono stati 90mila. La società è cambiata ed è cambiata giustamente la donna. La qualità della propria vita viene prima della famiglia. È un cambiamento culturale contro il quale nell’immediato poco possono le detrazioni fiscali per i nuovi nati e i maggiori servizi di sostegno all’infanzia, che pure servono”[11].

Mutamenti culturali, nuovi orientamenti e stili di vita, diverse scale valoriali che inducono percorsi di vita differenti da quelli a lungo reputati canonici; ma anche timori riguardanti l’instabilità e la precarietà delle relazioni che inducono prudenza. Oppure, perché no?, anche mode, edonismo, immaturità, egoismo in una società in cui individualismo e narcisismo non difettano. Con un po’ di pazienza e fantasia la ricerca di fattori/motivazioni in gioco potrebbe continuare, fino a comporre un coacervo di variabili in tanti modi tra loro componibili, ma tutte orientate nella medesima direzione: alimentare la denatalità in un Paese che di tanto ha bisogno ma non certo di deprimere ulteriormente il tasso di natalità (e il suo gemello TFR, in questo caso, più che mai, torvo e funesto presagio della peggiore accezione del lemma liquidazione), ma che sembra invece scivolare verso tempi difficili frivolmente distratto da un fuoco d’artificio di falsi bersagli.

“I sonnambuli”, titola duramente il primo capitolo del Rapporto Censis 2023, e ribadisce titolando “Ciechi dinanzi ai presagi” il primo paragrafo. “Un esempio paradigmatico riguarda la tendenza regressiva della demografia del Paese, prevista da anni, associata alla rarefazione dei nati, dei giovani e della popolazione in età attiva, a fronte della proliferazione esponenziale dei longevi, ma di cui solo oggi si discute come se fosse un inatteso meteorite o una bomba innescata, pronta ad esplodere”. “Le più recenti previsioni dell’Istat indicano che nel 2050, fra meno di trent’anni, l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se due grandi città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero)”. “Attualmente le donne in età feconda (…) sono 11,6 milioni, nel 2050 diminuiranno (…) di più di 2 milioni di unità, generando un insormontabile vincolo oggettivo per ogni tentativo di invertire nel breve termine il declino della natalità”[12].

Anche l’Istat avvisa: “i futuri comportamenti demografici non annulleranno le tendenze in atto[13], perché situazioni come quelle di questo Paese potrebbero vedere cambiamenti solo su scala ultra-generazionale. “Il mercato del lavoro, la creazione di ricchezza e la sua redistribuzione sono direttamente minacciati dalla rarefazione annunciata delle forze di lavoro. Si stimano quasi 8 milioni di persone in età attiva in meno nel 2050”, (…) “mentre al di là del Mediterraneo i tassi di natalità sono superiori a 23 nati ogni mille abitanti in Nord Africa e a 34 nati ogni mille abitanti nell’Africa subsahariana (nel nostro Pese il tasso di natalità è sceso a 6,7 nati ogni mille abitanti)”.

Ma “dinanzi ai cupi presagi, il dibattito pubblico ristagna (…). Di fronte all’evidenza dei processi sentinella, avvisaglie di future catastrofi, a cominciare dal depauperamento demografico, i sonnambuli vanno avanti con insipienza inerziale” [14].

Due brevi annotazioni per concludere. La prima: visto il quadro dell’attuale situazione italiana, imparare a guardare con un po’più di intelligenza al di là dei diversi Mediterranei non sarebbe una cattiva idea. La seconda: forse non andrebbe trascurata l’idea che “in un Paese in cui i giovani sono diventati un bene raro e prezioso, l’obiettivo del ‘non uno di meno’ deve uscire dalla retorica per dare spazio ad azioni concrete di diritto e supporto allo studio, restituendo loro la possibilità di pensare al futuro, di poter elaborare un proprio progetto di vita”[15].

“Todo cambia”, cantava Mercedes Sosa, la grande cantora popular argentina, e speriamo che, una volta tanto, ci riesca di invertire la rotta e di ricominciare a cambiare in meglio, anche restituendo alle cicogne il loro traffico; perché, quanto al peggio, abbiamo fin qui abbondantemente dato.


[1] Alternativa, n. 4/2023, De senectute XXI, p. 57, nota 6.

[2] I più recenti disponibili al momento in cui si scrive. Tutti i dati, ove non diversamente indicato, sono di fonte ISTAT, BDDE della Regione Piemonte o Eurostat.

[3] Ma nel 1971 nel VCO era al 22,1%, quindi sfiorava il doppio.

[4] Il TFR che garantisce a una popolazione la possibilità di riprodursi senza alterazioni della struttura è pari a 2,1 figli per donna. Un vasto repertorio di dati, di facile accesso, per soddisfare ulteriori interessi in materia è disponibile qui

[5] Considerando il tasso di natalità, cioè il numero di nati nell’anno ogni 1.000 abitanti (quindi diverso dal TFR che è il numero medio di figli per donna) i dati internazionali, in ogni caso eloquenti, oscillano un po’ in base ai criteri adottati dalle diverse fonti; qui il confronto tra due fonti: Italia al 140° posto su 143 Stati considerati, oppure al 201° su 213 Stati.

[6] Si veda la nota precedente.

[7]Molti degli ostacoli che incontriamo sono strutturali: una politica della residenzialità studentesca inesistente, non disporre di risorse per affittare una casa, non poter frequentare le lezioni, migliaia di borse di studio riconosciute ma non erogate… Quella abitativa come quella economica sono emergenze”. Dal discorso per l’apertura dell’anno accademico della Presidente delle studentesse e degli studenti dell’Università di Padova. 2023.

[8] “Se in media un dipendente in Italia prende 22.839 euro, un maschio sale a 26.227 e una femmina precipita a 18.305. In questo dato c’è però un problema di fondo: non tiene conto della variabile delle “ore lavorate”. Quasi metà delle donne nell’ultimo anno ha avuto a che fare con il part-time. Per i maschi si parla solo di uno su cinque. È un fattore «strutturale», perché la scelta del part-time di una donna spesso è “involontaria”: dettata dalla necessità di sopportare il grosso del lavoro domestico, non retribuito. A questo, si sommano le vere e proprie «discriminazioni» che si sperimentano a parità di ruolo e mansioni”. La Repubblica, 27.11.2023.

[9]Per le generazioni nate fino alla fine degli anni Sessanta la mobilità ascendente è stata in aumento e quella discendente in diminuzione (…) per i nati dalla seconda metà degli anni Settanta e Ottanta non solo diminuisce la probabilità di ascesa sociale rispetto alle generazioni precedenti, ma tale probabilità diventa inferiore a quella di compiere un movimento verso il basso” in A. Rosina, R. Impicciatore, Storia demografica d’Italia, Carocci Editore, Roma, 2022, p. 125.

[10]Un Paese con le neomamme più anziane d’Europa (…) e dove 762mila famiglie con minori devono fronteggiare la povertà assoluta, con un’incidenza del 12,1% che sale al 22,8% tra quelle che hanno tre o più figli (…). Spesso manca un supporto dei servizi sul territorio, carenti o troppo costosi, come gli asili nido (nell’anno educativo 2019/2020 solo il 14,7% del totale dei bambini tra zero e due anni ha avuto accesso al servizio educativo comunale o convenzionato con Comuni), che dovrebbero avere anche una funzione di accompagnamento e sostegno della genitorialità”. Save the Children.

[11] Blangiardo è docente di demografia ed è stato presidente dell’ISTAT. Approfondimenti

[12] Censis, 57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, Franco Angeli, Roma, 2023, pp. 3-4.

[13] ISTAT, Previsioni della popolazione residente e delle famiglie – Base 1/1/2022, Report statistiche.

[14] Censis, cit., pp. 6-7.

[15] Ibidem, p. 69.

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