Magazine Alternativa A Numero 4
Anno 2023
De senectute XXI
28 Febbraio 2024

Anche da una situazione critica, gratta gratta, c’è del buono da cavare

Nel precedente numero di questa rivista, ragionando di giovani, si diceva che il primo aggettivo che viene per loro in mente è “pochi”: i giovani oggi sono, innanzi tutto, pochi. Parlando ora di anziani, non si tentenna, si va sul sicuro, l’aggettivo è “tanti”: gli anziani oggi sono tanti, qualcuno dice perfino “troppi”. Come sempre, la scelta degli aggettivi merita qualche spiegazione.

Dire “tanti” e dire “troppi” non è la stessa cosa: il primo (c’è tanta gente) constata, il secondo (c’è troppa gente!) segnala un’anomalia. C’è tanta gente in rapporto a un prima, quando ce n’era meno; c’è troppa gente perché il numero supera un livello di guardia. Andiamo con ordine.

In Italia, vent’anni fa nel 2002, gli ultrasessantacinquenni costituivano il 18,7% della popolazione totale. A fine 2022, quella quota è salita al 24,1% del totale, quindi, in soli vent’anni, 5,4 punti percentuali in più, che, rapportati al dato di partenza, significano un incremento del 29%. In Piemonte nello stesso arco di tempo si è passati dal 21,7% al 26,5% con un incremento del 22,1%. Nel VCO dal 21,1% al 28,1% con un incremento del 33,2%. Gli ultraottantenni sono oggi il 7,7% della popolazione italiana, l’8,9% di quella piemontese e il 9,4% di quella del VCO (al censimento del 2001, in questa provincia erano il 5,2%, qui l’incremento è dell’80,8%!)[1].

Che dire? Tanti, sicuramente tanti anziani – in questa provincia più delle medie nazionale e regionale – e quote crescenti, sorprendentemente crescenti. Perché in demografia i cambiamenti non avvengono come ormai succede nel quadro politico italiano dove a ogni tornata elettorale tutto si ribalta, ma si manifestano lentamente, sono osservabili solo nell’arco di generazioni. Stiamo, quindi, assistendo a un fenomeno nuovo, quanto meno insolito, la rapida crescita numerica degli anziani nelle nostre società (non solo in Italia), che non possiamo, però, considerare negativo, tutt’altro: più anziani significa che in questa popolazione cresce il numero di chi vive più a lungo, perché si vive meglio, “il miglioramento continuo delle condizioni di vita e di salute ha reso sempre più comune arrivare a età che in passato venivano raggiunte solo da una stretta minoranza della popolazione (in condizioni spesso precarie)”[2].

Non è, perciò, la crescita numerica della popolazione anziana che allarma, non è questo il fenomeno che fa scomodare quell’aggettivo, “troppi”, affermando che gli anziani incominciano ad essere troppi. Il problema sta nella crescita percentuale, cioè, crescono troppo in rapporto al resto della popolazione, va alterandosi un equilibrio ritenuto necessario, perché, nello stesso tempo, altri due fenomeni sono vigorosamente all’opera nell’odierna società italiana: la denatalità e il degiovanimento. La denatalità è un fenomeno ormai da tempo conosciuto che erode alla base il grafico della piramide delle età; fin dai primi sintomi di contrazione delle nascite nella seconda metà degli anni Settanta con un decrescendo progressivo, perché il fenomeno non è solo sostenuto dall’assenza di politiche di contrasto, ma si autoalimenta con l’avvicendarsi di coorti sempre più ridotte di potenziali genitori.

E questo è il degiovanimento, il fenomeno conseguente la denatalità protratta per più decenni, è il progressivo assottigliamento, dopo le classi di età infantile, di quelle adolescenziali e poi giovanili, poi delle classi lavoratrici dei giovani adulti e degli adulti. “L’Italia del nuovo secolo si trova in una spirale di ‘degiovanimento’ quantitativo e qualitativo, ovvero di indebolimento delle nuove generazioni rispetto alla propria dimensione demografica, quindi anche al peso elettorale, sia nella partecipazione attiva nella società e nel mercato del lavoro”[3]. A questo punto, il concetto demografico di “invecchiamento della popolazione” appare nel suo pieno significato. La società invecchia perché si modifica nelle sue tre macroaree: si assottiglia la componente infantile a causa di una crescente e inarrestabile denatalità; conseguentemente tocca poi a quella adolescente, quindi a quella giovanile ed è poi la volta delle componenti adulte; la componente anziana continua invece a crescere. Il modo più sbrigativo per verificare questo andamento è considerare l’indice di vecchiaia della popolazione[4]. Nel 1971 nel VCO[5] l’indice di vecchiaia era 58, cioè ogni 100 giovani c’erano 58 anziani, nel 2002 era salito a 178, cioè sempre ogni 100 giovani gli anziani erano 178, oggi l’indice di vecchiaia del VCO è 262. Cioè, in mezzo secolo la componente anziana, che all’inizio del periodo era circa la metà di quella giovanile, oggi si avvia a diventare il triplo.

Qui sembra spuntare, però, una contraddizione. Perché la componente anziana continua ad aumentare? Una prima risposta è ovvia: l’aumento del suo peso percentuale è in larga parte determinato dall’indebolimento delle altre componenti. Ma c’è dell’altro, però questa volta è ai numeri reali, cui bisogna guardare e, per far ciò, è l’andamento della natalità di un intero secolo che occorre prendere in esame e lo possiamo fare anche senza impelagarci nei numeri[6].

Dalla seconda metà degli anni Venti del Novecento, la “battaglia per la difesa e lo sviluppo della razza” di mussoliniana memoria avviò una serie di misure indirizzate all’espansione della natalità dell’italica stirpe; i risultati non furono brillanti, ma consentirono almeno di contenere le perdite patite da decenni di emigrazioni. Dopo il prevedibile calo della natalità negli anni di guerra, la vera impennata delle nascite si ebbe dal 1946 e per l’intero dopoguerra, con un continuo crescendo negli anni Cinquanta, il culmine nei primi Sessanta (picco nel 1964) e un ritmo sostenuto, anche se in flessione, ancora per un decennio. Poi iniziò la discesa, e come sempre succede in discesa, procedendo si prende velocità.

Ne derivano due conseguenze. Le odierne coorti di chi è entrato o entrerà fra breve nell’età anziana sono quelle dei baby boomer, le più numerose da un secolo ad oggi; questo aiuta a comprendere la forte espansione numerica di questi scaglioni demografici destinata a  protrarsi oltre la metà del XXI secolo. Inoltre, le coorti in età feconda sono ormai da quasi un trentennio rappresentate dalle esigue forze della denatalità.

Le conseguenze di questa situazione non possono che essere severe. L’ISTAT calcola che nel 2050 la quota di popolazione anziana passi dall’attuale 23,8% al 34,5%. “La struttura della popolazione è oggetto da anni di uno squilibrio sempre più profondo, dovuto alla combinazione, tipicamente italiana, dell’aumento della longevità e di una fecondità costantemente bassa. Stabilmente sul podio mondiale dell’invecchiamento, oggi il Paese presenta la seguente articolazione per età: il 12,7% degli individui ha fino a 14 anni di età; il 63,5% tra 15 e 64 anni; il 23,8% dai 65 anni di età in su. L’età media, nel frattempo, si è portata a 46,2 anni e ciò fa del Paese, insieme a pochi altri esempi nel mondo (Spagna e Grecia in Europa; Corea del Sud e Giappone in Asia) uno dei casi all’attenzione mondiale per i demografi nonché per gli esperti di economia e sviluppo sostenibile”[7].

Superfluo rimarcare che questo squilibrio della struttura demografica presenta e più ancora presenterà problemi di difficile soluzione. Nel 2022 l’indice di dipendenza strutturale[8] indica che il carico socioeconomico di una persona inattiva è ripartito tra due persone attive (57,5 inattivi a carico di 100 attivi); per il 2050 le proiezioni demografiche prevedono un rapporto 1 a 1 (o 100 a 100) e, anche solo limitandosi a considerare i prevedibili incrementi della spesa pensionistica e di quella sanitaria, è chiaro che la parte preponderante di questo carico è, e più ancora sarà, attribuibile alla componente anziana.

Come si diceva, i fenomeni demografici operano cambiamenti lentamente, in archi temporali che sono quelli generazionali, perciò, “i futuri comportamenti demografici non annulleranno le tendenze in atto[9], i possibili correttivi vanno ricercati altrove. Nelle politiche che concretamente promuovano la natalità, nelle politiche a sostegno della valorizzazione dei flussi di immigrazione, nelle politiche sanitarie che diano sempre più spazio all’educazione sanitaria e alla prevenzione (e al ripotenziamento del sistema sanitario nazionale), nelle politiche che sappiano accrescere il valore sociale della presenza di una forte componente anziana. Insomma, nella politica: quella consapevole del proprio ruolo e del proprio dovere di guardare avanti, del proprio compito di governare i problemi… se ancora ne esiste qualche brandello in questo Paese.

Però, quantunque una società con un’estesa componente anziana ponga oggettivi problemi, guardando alla situazione odierna e al prossimo futuro, non si può affermare che sia soltanto una sciagura.

L’attuale compagine anziana della nostra società, oltre che da una parte di nati negli anni Trenta, si compone soprattutto di nati negli anni Quaranta e Cinquanta e, tra pochi anni, inizieranno a entrarvi quelli degli anni Sessanta. Si tratta di coorti che presentano caratteri e profili notevolmente diversi da quelle che le hanno precedute. In primo luogo, solo una ridotta parte di esse, e soltanto in età infantile, è stata scalfita dalla seconda guerra mondiale, a differenza della generazione precedente che ne è stata totalmente investita e di quella che veniva ancor prima che di guerre ne ha patite due.

Inoltre, si tratta di contingenti che sono cresciuti e sono stati poi protagonisti delle più importanti fasi di sviluppo del Paese: dalla ricostruzione al boom economico, alla crescita civile degli anni Sessanta e alla grande stagione dei diritti dei Settanta. In un clima di forti tensioni e contraddizioni, ma anche di un benessere diffuso e crescente, di una modernizzazione dei costumi e di una generale ricaduta del rapido sviluppo scientifico e tecnologico. Scaglioni demografici entrati nella terza età nel XXI secolo, dopo una vita lavorativa e sociale contraddistinta da una scolarizzazione di massa, da un contesto socioculturale improntato dalla capillare diffusione dei mass-media, da un relativo benessere economico. Tutti fenomeni sconosciuti alle generazioni precedenti.

Pur con le molte varianti proprie di una società composita e senza fare d’ogni erba un fascio, l’immagine e anche la sostanza dell’anziano odierno appaiono molto diverse da quelle delle epoche precedenti, anche soltanto di venti/trent’anni prima, abissalmente poi se si retrocede di due o tre generazioni, cioè ai nonni degli attuali sessanta/settantenni. Innanzi tutto, la stagione anziana, vecchiaia compresa, è mediamente più lunga e percorribile in condizioni di salute migliori, anche in presenza di patologie oggi sanitariamente più gestibili. Piuttosto consueto e diffuso è protrarre abitudini e stili di vita degli anni precedenti: propensione alla socialità, un temperato dinamismo, curiosità e interessi, integrati con nuove aree di attenzione e con nuovi impegni.

L’attivismo anziano è una realtà molto diffusa e in crescita, con tutto il corollario di apporti e di valore aggiunto che offre, oltre che agli interessati, alla collettività. Considerato che già siamo andati per le lunghe, limitiamoci all’esempio di due soli casi che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi: se si osserva il rapporto intergenerazionale, con facilità si coglie la funzione di attivo sostegno della componente anziana alle reti familiari; se si osserva l’associazionismo e più ancora il volontariato, considerata la folta, quando non esclusiva, presenza di anziani, non è difficile comprendere quanto e quale sia l’apporto fornito in quegli ambiti da questa componente sociale.

Insomma, come spesso accade, anche da una situazione critica, gratta gratta, c’è del buono da cavare.


[1] Ove non diversamente indicato, i dati presentati sono di fonte ISTAT.

[2] A. Rosina, R. Impacciatore, Storia demografica d’Italia – Crescita, crisi e sfide, Carocci editore, Roma, 2022, p. 136.

[3] Ibidem, p. 99.

[4] È il rapporto percentuale tra la componente 0-14 anni e quella 65 e più.

[5] Nel 1971 la provincia del VCO non esisteva, il dato è calcolato sui comuni che attualmente la compongono.

[6] Sarebbe a questo punto utile interrogarsi sull’insieme delle cause che hanno innescato e poi sostenuto la lunga fase di denatalità, ma questo è un discorso che richiederebbe ben più di queste due paginette.

[7] ISTAT, Previsioni della popolazione residente e delle famiglie – Base 1/1/2022, Report statistiche. https://www.istat.it/it/files/2023/09/Previsioni-popolazione-e-famiglie.pdf

[8] È il rapporto tra la popolazione attiva 15-64 anni e quella inattiva 0-14 + 65 e più anni, rappresenta il carico sociale ed economico.

[9] Vedi nota 7.

Foto: Grant Wood, American Gothic, 1930, Art Institute of Chicag

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