Il termine “identità”, nella sua accezione socio-antropologica (appartenenza consapevole ad una comunità) va trattato con una buona dose di cautela. Sia perché, come sottolineava Annibale Salsa[1] oltre tre lustri addietro, le identità tradizionali hanno subito i processi di trasformazione economica e omologazione comportamentale regredendo a fenomeni quali la folklorizzazione e un esasperato localismo, sia perché il richiamo alla “purezza” di presunte identità etniche rappresenta oggi la nuova frontiera del razzismo[2] che dietro alle parole “etnia” (e “cultura”) ripropone i vecchi miti della razza da difendere contro le presunte contaminazioni (es. “sostituzione etnica”). Le identità per ciascuno di noi sono plurime (nazionale, religiosa, professionale e magari sportiva ecc.) e fluttuanti, sempre meno “ascritte” e sempre più frutto di un processo di costruzione.
«La “identità” ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte»[3].
L’identità territoriale, in particolare per chi ama e si identifica con questa terra fra le Lepontine e le rive dei nostri laghi, va assunta pertanto come un compito. Una identità problematica come sottolineavo qualche anno fa[4] sia per l’assenza di una denominazione (Come ci chiamiamo noi del VCO?) che di un perimetro che non sia solo istituzionale.
Ogni identità si forma e consolida attraverso un duplice processo di riconoscimento: interno e esterno, auto-riconoscimento ed etero-riconoscimento (come mi vedo, come “noi” ci vediamo e dall’altro lato come “gli altri” mi e ci vedono). Una identità solida / forte presenta elevata congruenza fra auto riconoscimento ed etero riconoscimento. Viceversa la dissonanza fra i due lati dello specchio è indice di una identità fragile o comunque ancora non pienamente formata. A quanti di noi è capitato, in giro per l’Italia e oltre, di aver difficoltà a chiarire da dove veniamo!
Tralasciando le tematiche del nome e del perimetro provo ad accennare ad alcuni spunti che ci possono indirizzare verso una più consapevole identità territoriale, identità che non ha niente a che vedere con “il sangue e il suolo” (biologicamente ascritta), ma acquisibile – ovunque e da chi si sia nati – con la conoscenza storica, paesaggistica e letteraria di queste terre.
Il Paesaggio. Se il concetto di identità rimanda al concetto di comunità quello di identità territoriale rimanda a quello di Paesaggio, non nei termini tradizionali, ma per come il paesaggio viene oggi concepito. Tradizionalmente infatti ‘paesaggio’ era collegato a panorama: visione globale, dall’alto, verticale; porzione di territorio sottoposto ad uno sguardo capace di coglierne l’unitarietà, l’armonia e la bellezza anche nella sua varietà. In genere si fa risalire la prima descrizione di un paesaggio al Petrarca:
«Nell’aprile del 1336 Francesco Petrarca salì in vetta al mont Ventoux, il “monte Ventoso”, nelle Alpi sud-occidentali della Francia. Il racconto dell’impresa di Petrarca è considerato la più antica descrizione di un paesaggio nella storia della letteratura. Chi, come il poeta, ha scalato questo monte straordinario, può immaginare il motivo per cui, proprio in questo luogo, si comprende cosa sia il paesaggio: lo sguardo va lontano, oltre le montagne e le colline, le creste rocciose, le vette boschive; oggi, esattamente come allora per Petrarca, si scorgono il Rodano e le coste del mar Mediterraneo. Si ha l’impressione di avere sotto di sé l’intera Provenza.»[5]
Gli studi più recenti privilegiano una visione orizzontale, ad altezza d’uomo: vederlo pertanto dall’interno, percorrerlo, viverlo. Non panorama ma percorso, cammino sapiente. Se nella concezione tradizionale il paesaggio si connetteva alle arti figurative (pittura, fotografia), la concezione odierna mette in campo la fruizione culturale del territorio ovvero saperlo ‘leggere’ nei suoi segni e nella sua storia e cultura e saperlo metterlo a frutto, ‘valorizzare’. Si passa così non solo da una visione verticale a una orizzontale, ma anche da una concezione contemplativa ad una attiva.
Come costruire allora una “identità territoriale”? Indispensabili sono i nostri scrittori che possono accompagnarci nel cammino. Non mi pare possibile citarli tutti: ne tralascerei – per dimenticanza o non conoscenza – certamente alcuni. Mi soffermerò da un lato su chi più di tutti ha aperto la strada alla conoscenza e riflessione della storia e cultura della nostra terra, Nino Chiovini, e a due che troppo presto e inaspettatamente ci hanno lasciato: Erminio Ferrari e Pier Antonio Ragozza. Con una ulteriore limitazione: non le storie e le narrazioni ma alcune loro descrizioni di “marcatori territoriali”.
Negli studi sulle identità nazionali vengono definiti “marcatori” le caratteristiche utili per identificare una persona come in possesso di una particolare identità nazionale; inizialmente si tratta di aspetti fisici, corporei (acconciature, tatuaggi, abbigliamento, comportamento non verbale ecc.) per poi svilupparsi negli aspetti culturali (lingua, simbolismo, mitologia, religione, arti, professioni tipiche ecc.).
Chiamo allora “marcatori” dell’identità di un territorio quegli indicatori materiali che, grazie alla mediazione dei nostri scrittori, possiamo ri-conoscere come “tipici” durante il cammino.
Nino Chiovini. La scrittura di Chiovini è una scrittura morale: mi è parso di riconoscerne la cifra specifica nella sua capacità (e volontà) di dar parola[6]. Non si tratta solo di un “mettersi di lato” per dar voce a chi non l’ha più, o che mai era stato ascoltato, ma di un utilizzo sapiente delle modalità di ascolto attivo, di “far spazio” e rendere protagonisti i portatori delle “storie della resistenza” e i rappresentanti della “civiltà rurale montana” che ha caratterizzato per secoli gran parte del nostro territorio. E, per quel che qui intendo sottolineare, “dar voce” anche ai luoghi perché nei loro nomi e nei loro segni materiali ci possono parlare purché la nostra mente ne sia attrezzata e consapevole. Le lingue locali e, in particolare, la toponomastica ci parlano dell’origine e della funzione assegnata a quelle località. Di seguito alcuni esempi.
«… a partire dal XII secolo […] nei documenti conosciuti dell’epoca ricorre sempre più spesso il termine di runca, ossia terra dissodata di recente, voce derivata dal latino classico runco, runcare (sterpare, dissodare), giunto alla soglia dei nostri giorni nel medesimo significato con il verbo dialettale runcàa e con i toponimi derivati, che indicano luoghi del territorio utilizzato con precise caratteristiche; Runch, Runchett, Runcàsc, Runcutìn, ossia luoghi coltivati, a media/breve distanza dal centro abitato».[7]
«Nei dialetti alto novaresi, per indicare gli alpi si usano i termini di curt (mediato dal latino cohors inteso come spiazzo o radura) e di alp di origine celtica, insieme a quello di munt (monte) usato prevalentemente nell’alto Verbano per indicare gli alpi maggengali o primaverili, mentre quelli di piazza e di culma sono riservati agli alpi posti a ridosso di un colle».[8]
Possiamo, grazie alla toponomastica, ad esempio individuare l’origine quali “località in cui … venivano concentrate o confinate le greggi di capre”, considerate dannose per le coltivazioni vicine ai centri abitati, nel nome di molte località del Verbano e dell’Ossola derivati dai vocaboli dialettali di cavra e crava, come del duro lavoro di terrazzamento dei declivi nei vocaboli piaggia, campèi o pinezz.
La cultura materiale della civiltà montana è soprattutto basata sul legno e sulla pietra, le baite – che incontriamo in tutto il nostri territorio collinare e montano – ne sono la testimonianza più duratura e Chiovini ci accompagna, grazie all’idioma locale, per conoscerne le diverse funzioni e il lavoro tecnicamente ingegnoso che hanno richiesto.
«La bàita nel dialetto maleschese è chiamata casera (nome comune a tutta l’Ossola), mentre nel dialetto cossognese è la Casina, diminutivo/dispregiativo dell’italiano casa e del dialettale cà. Le bàite, anch’esse in origine costruite sommariamente per minime esigenze, come elementari ricoveri di fortuna […] fino a diventare, dopo il XVI secolo, i fabbricati utilizzati annualmente per la monticazione estiva, praticata fino a pochi decenni or sono. Le bàite sono, di norma, costruzioni di modeste proporzioni, con vani alti non più di due metri. A seconda della loro utilizzazione, si dividono in «bàite da fuoco» {casér da fógh) e «baite per il bestiame» {casér dìi besti). Le prime, quasi sempre a un piano e sprovviste di soffitto sotto il tetto, venivano utilizzate per il lavoro domestico: cucinare e lavorare il latte; se la bàita era dotata di un piano superiore, quest’ultimo era adibito a rudimentale camera da letto; ma le bàite a due piani erano rare; in Val Grande poi, un lusso sconosciuto. Le «baite per il bestiame» erano quasi sempre a due piani, separate da un rudimentale assito, in cui il piano inferiore fungeva da stalla e quello superiore, comprendente anche il sottotetto, fungeva da fienile e da camera da letto, in cui il letto era il fieno medesimo».[9]
Nelle pagine successive, a cui rimando, Chiovini si sofferma sui materiali utilizzati, con il legno più in uso rispetto alla pietra nell’area Valzer e per le baite in alta quota per la necessità di ripararsi dal freddo. Particolare competenza, quella del teciàtt, era richiesta per la costruzione del tetto in piode (piòd). La pietra era il materiale fondamentale sia per le abitazioni nei paesi, per edifici religiosi nei fondovalle (gli oratori), per le cappelle delle Vie Crucis «che si snodano lungo tradizionali percorsi nelle vicinanze dei villaggi» e per le cappelle devozionali che accompagnano i sentieri.
Per concludere con «l’utilizzazione della pietra ollare, le cui lavorazione e uso, nella nostra regione, affondano le radici nell’età del ferro». Denominata nei dialetti locali perlopiù con variazioni dell’italiano “laveggio” (lavesc, lavégg, laujera, Lavijn)è una pietra particolare di cui Chiovini descrive le origini geologiche, le caratteristiche chimiche, le proprietà che ne favoriscono la lavorazione e il suo utilizzo «per ricavarne pignatte, paioli, bicchieri, tubi, olle e persino stufe».
Erminio Ferrari[10]. Domenica 28 luglio scorso la località dei Bagni di Craveggia era particolarmente affollata: le comunità Vigezzine e della Val Onsernone, insieme a corpi d’arma e associazioni culturali svizzere, ANPI del VCO e di Domodossola, Casa della Resistenza, hanno inaugurato una targa commemorativa in ricordo della “Battaglia di Frontiera” del 18 ottobre 1944. Mentre transitavo sul sentiero sassoso che conduce al monumento mi sono accorto che su uno dei sassoni a ridosso dell’alveo del torrente, ormai carsico dopo l’alluvione del 1978, una sottile linea nera segnava il confine italo-elvetico. Mi è subito venuto a mente un bellissimo e poco conosciuto racconto breve di Erminio relativo alla valle parallela (le Centovalli), alla sua ferrovia e a questi confini non sempre definiti e visibili. Incuneato fra i Cantoni Vallese e Ticino quello che allora era l’Alto Novarese, oggi assunto a Provincia, è una sorta di “marca di Confine” ove le demarcazioni culturali, linguistiche, lavorative ecc. – in particolare con il Ticino – sono tradizionalmente porose e intrecciate. Lascio la parola all’Ermi.
«Dalla valle esce un treno che porta più storie che vagoni. A cominciare dal nome: sul versante svizzero del confine è la Centovallina, su quello italiano è la Vigezzina. Lo stesso tocca ai due torrenti che dalle medesime montagne scorrono uno verso ovest, il Melezzo, l’altro verso est, la Melezza. È che certi confini non si disputano, piuttosto si condividono, si confondono e si perdono di vista: in una selva di castagni uccisi e rinati da un male che ogni mezzo secolo li assale; o lungo il solco di una valle che alcune volte caccia acqua da far paura, altre è secca come certi cuori; o tracciato per pietraie ingrate, piccoli deserti lepontini; inteso da lingue che si sovrappongono, parole che figliano parole.
Qui capita spesso di avere un piede in Svizzera e uno in Italia, e un po’ ci si fa l’abitudine; finché, di tempo in tempo, di impedirlo non si incaricano la Storia, quella che finisce sui libri – si spara, si fugge, si cerca riparo, si attacca – o le meschine necessità della quotidiana politica, con meno eroici manifesti e artiglierie elettorali. […]
Prendi Re. Da quando i pittori suscitarono il miracolo della Madonna che sanguina – o fu la Madonna a ispirare loro — quell’icona benedicente dilagò per villaggi e alpi, indifferente alle frontiere, occupando lunette su povere facciate, o, in forma di immaginetta, appuntata sulla credenza, insieme alle fotografie dei nipoti e a un promemoria dell’Agricoltore ticinese. E lavorava ignaro o non curandosi dei confini l’Antonio da Tradate che salì a Palagnedra nel quindicesimo secolo a dipingervi almeno una piccola parte di tutte quelle più numerose cose che stanno tra terra e cielo. Nella chiesa originaria di Palagnedra, il suo ciclo allegorico dei mesi corre lungo l’intero coro — oggi una sagrestia — quasi sorreggendo un’apoteosi di santi e profeti e vite di Nostro Signore, che salgono a colmare il cielo artificiale della volta. Spostandosi con i suoi cartoni, questo Giotto un po’ in ritardo disseminò d’arte gli oratori affacciati sul Verbano, dove oggi si dice Italia, e chiese e chiesette di borghi e villaggi svizzeri. Ma bisogna dire che a Palagnedra diede il meglio, forse perché fuori lo attendeva il Gridone che incombe e costringe quasi a rovesciare indietro la testa per vederne la sommità appuntata nel cielo. Il ciclo dei mesi il pittore lo vedeva svolgersi lì fuori, in quella campagna sospesa sul solco inabissato del torrente; e, sopra quella montagna sovrana, un cielo grande abbastanza per ospitare storie sacre e teologie».[11]
In gran parte delle opere di Ferrari il tema del confine è ben presente, sia in quelle saggistiche che in quelle narrative (ammesso che per lui, come per Chiovini, questa distinzione abbia ancora un senso). Contrabbandieri, partigiani e profughi che trovano riparo in terra elvetica, passatori in tempo di guerra e dopo con i migranti, lavoratori italiani oltre confine ecc. In questo racconto la nostra “identità transfrontaliera” e questo “marcatore” (il confine) non sempre certo e visibile, trovano una sintesi particolarmente efficace.
Pier Antonio Ragozza. “Un Collorese” talvolta si firmava. Studioso di Storia militare, ma non militarista, la sua attenzione si è rivolta in particolare alle due guerre mondiali, alle storie degli Alpini e dei partigiani – con un affetto particolare per gli Alpini-partigiani[12] – e alle modificazioni prodotte da quegli eventi alle nostre terre.
La cosiddetta “Linea Cadorna” innanzitutto, a cui Ragozza, unitamente a Paolo Crosa Lenz, ha dedicato un importante contributo il cui titolo e sottotitolo non indicano solo l’argomento ma soprattutto una esplicita prospettiva: La Linea Cadorna nel Verbano Cusio Ossola. Dai sentieri di guerra alle strade di pace[13].
«Fra le ricchezze storico-culturali ed architettoniche del territorio della Provincia del Verbano Cusio Ossola, c’è anche un patrimonio fatto di opere fortificate e di una viabilità di supporto, realizzate nel primo decennio del XX secolo e più ampiamente nel corso della prima guerra mondiale, che è rimasto quasi del tutto dimenticato per ben più di mezzo secolo, e che solo da alcuni anni a questa parte è finalmente stato riconsiderato come autentica risorsa, per una fruizione a fini pacifici di quanto realizzato per scopi bellici e di difesa nazionale. […] questa imponente struttura difensiva che copre Piemonte e Lombardia, ma con qualche opera in Valle d’Aosta e che nella terminologia burocratico-militare dell’epoca era definita come “Occupazione Avanzata Frontiera Nord”. […] Non era una struttura fortificata continua collocata a ridosso della frontiera, ma una serie di opere composte da appostamenti per la fanteria e postazioni per l’artiglieria costruiti in località arretrate, a presidio e difesa dei punti nevralgici collocati sui principali assi di penetrazione di un potenziale nemico che facesse ingresso dalla Svizzera».[14]
«A parte alcuni episodi [collegati alla Resistenza], la Linea Cadorna non fu mai utilizzata a fini bellici, almeno quelli per cui era stata realizzata, e se mulattiere e strade servirono a rendere meno aspro il cammino degli alpigiani, le fortificazioni vennero invece progressivamente abbandonate e lasciate sole a combattere la silenziosa battaglia contro la vegetazione e le alluvioni che, lentamente, le seppellivano, mentre altrove le vecchie opere militari dovevano lasciare spazio a costruzioni civili o nuovi insediamenti produttivi. Nonostante questo abbandono, la sensibilità e l’attenzione di persone ed associazioni, a cui si sono poi aggiunti anche Enti pubblici, ha portato dagli Anni Ottanta in poi a considerare in modo diverso questo patrimonio di opere e strade, quasi sempre ben integrate nell’ambiente dove sono sorte, per valorizzarne gli aspetti storici ed architettonici, sul modello di quanto fatto all’estero».
L’iniziativa verrà soprattutto avviata dal Gruppo di Ornavasso della Associazione Nazionale Alpini per l’Ossola, dal CAI di Omegna per il Montorfano e, per l’area del Verbano, dalla Comunità Montana Alto Verbano.
Ragozza ha pure dedicato alcuni scritti ai luoghi edificati, sia religiosi che laici, in ricordo dei caduti e dei reduci delle guerre, in particolare al Santuario dei reduci di Lüt della sua Colloro e al Memoriale degli Alpini alla Colletta di Pala[15]. Collocati entrambi in postazione sopraelevata dominano con la loro visuale rispettivamente la Bassa Ossola e la piana di Intra con la parte meridionale del Maggiore nelle sue coste sia piemontesi che lombarde.
Del Santuario del Lüt viene ripercorsa la sua lunga storia. Nato nella prima metà dell’Ottocento come cappella dedicata alla Madonna quale protezione, almeno secondo la leggenda, alla malefica presenza in loco di streghe ed esseri diabolici. Durante la prima guerra di Indipendenza molti ossolani dovettero indossare l’uniforme per combattere contro l’Austria. «Arrivavano dalla Val Grande i tre giovani Colloresi che, nel 1848, fecero voto di ampliare l’originaria cappelletta se fossero tornati incolumi dal conflitto in cui dovevano andare a combattere». E nel corso dei decenni la cappelletta si trasforma in oratorio, poi in Chiesetta e alla fine in santuario, così come si aggiungono le guerre (coloniali, mondiali, Resistenza) che sfornano caduti da incidere sulle lapidi e reduci che si prendono cura della Madonna del Lüt.
«… forse la più bella e intesa descrizione del legame fra lo storico oratorio mariano e l’area oggi divenuta Parco Nazionale si coglie in una poesia di don Remigio Biancossi, il quale davanti alla chiesetta di Lüt, che spicca solitaria con il candore delle sue mura fra le ferrigne rocce che guardano la bassa Ossola, le montagne oltre la Toce, i laghi verso la pianura e le vallate che si aprono a ponente, l’ha poeticamente definita “..quasi un’agnella dispersa dal gregge, alla porta dell’immensa Val Grande…”.
Del tutto diversa e decisamente più recente l’origine del Memoriale di Pala ove sono incisi “i nomi di quasi settecento Caduti, un elenco che copre un trentennio, a partire dal 1915 e sino al 1945, partendo dalla Grande Guerra di cui sono ricordati 349 Caduti, passando per la campagna d’Etiopia del 1935-36 con le sue 47 vittime e chiudendosi con il secondo conflitto mondiale che lasciò sul campo altri 295 Caduti.”
«Ci sono luoghi che, anche senza essere stati teatro di vicende storiche particolari ma grazie all’intervento dell’uomo che li trasforma in segni tangibili di una memoria collettiva, vengono ad assumere un significato particolare, fermando nel tempo ricordi e sentimenti. Uno di questi luoghi è il Memoriale degli Alpini alla Colletta dell’Alpe Pala, poco sopra Miazzina a circa 1000 metri di quota, dove dalla seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo sorge questo piccolo sacrario che, idealmente, ferma il ricordo di quello che fu il Battaglione Alpini “Intra”, ma anche dei reparti che derivarono da questo in occasione delle mobilitazioni belliche, oltre che dei Gruppi di artiglieria da montagna, delle unità del Genio e dei servizi alpini. […] La scelta del luogo non era casuale, in quanto la «Colletta di Pala, sulle prime balze del Pian Cavallone, [era] meta un tempo delle esercitazioni del glorioso Battaglione Intra […] che vi giungeva con tutta l’attrezzatura montana e con le salmerie […]. Su quelle montagne, più tardi, giovani alpini e di tutte le armi, [salirono] per sottrarsi all’invasore tedesco e, combattendo per la libertà, hanno sacrificato la loro giovinezza».
[1] Annibale Salsa, Il tramonto delle identità tradizionali, Priuli & Verlucca, Scarmagno (To) 2007.
[2] Sul “razzismo culturalista” sul mio blog cfr. I migranti e le nostre comunità.
[3] Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 13.
[4] Cfr. Per una identità di territorio (ovvero VCO addio?
[5] Hansjörg Küster, Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma 2010, p. 4.
[6] Cfr. Storia, scrittura e moralità in Nino Chiovini.
[7] Cronache di terra lepontina, Vangelista, Milano 1987, p. 25.
[8] Ivi, p. 36.
[9] Ivi, p.104-105
[10] Cfr. Erminio Ferrari: storie e cammini della Resistenza che contiene anche bibliografia elinkografia dell’autore.
[11] Storie di treni e di contrabbando, in AA.VV Negli immediati dintorni: guida letteraria tra Lombardia e Canton Ticino, Casagrande, Bellinzona 2015. Il racconto completo è consultabile > qui <.
[12] Cfr. ad es. Penna bianca, camicia rossa. Storia di Ugo Pino, Domodossola 2020. La Bibliografia dei suoi testi presenti nelle biblioteche del VCO, curata dalla Biblioteca “Aldo Aniasi” della Casa della Resistenza e quella dei suoi contributi alla rivista Resistenza Unita, ci danno un’idea precisa dei suoi interessi e studi.
[13] Edito dalla Provincia Verbano Cusio Ossola, Gravellona 2007.
[14] Ivi, p. 83. Per il passo successivo p. 181. Sul ruolo non centrale di Cadorna nella progettazione della linea fortificata tradizionalmente a lui attribuita, per la quale furono invece fondamentali il Generale Alberto Pollio (1852-1914) e suoi successori tra cui il Generale Saverio Nasalli Rocca (1856-933) cfr. Debora Chiarelli – Leonardo Parachini, Una linea chiamata Cadorna, Società dei Verbanisti, Verbania 2016.
[15] Il primo in pubblicazione edita dalla Parrocchia di Premosello Chiovenda nel 2003, il secondo come contributo all’interno della rivista Vallintrasche del 2011 edita dal Magazzeno Storico Verbanese.
Foto: Nino Chiovini, Cronache di terra lepontina; Archivio Gianmaria Ottolini; Parrocchia di Premosello Chiovenda: Il santuario dei reduci del Lüt
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