Parlo volentieri della Montefibre o Rhodiatoce, di quella fabbrica che si erge lì, tra Intra e Pallanza, a fianco del cimitero, che negli anni ha cambiato più volte nome e proprietà ma che è sempre stata il fulcro, il nodo industriale della città di Verbania e che ora, con attività diverse da quelle originarie, domina con la sua skyline la piana alluvionale del torrente S. Bernardino che le scorre accanto. Ormai è diventata un’entità apparentemente avulsa dalla città, che la accetta con indifferenza, se non con rassegnazione, e della quale si parla solo per il dibattito sorto per trovare una definitiva destinazione urbanistica alle aree dismesse. Ne parlo e vorrei che se ne parlasse o scrivesse di più perché ritengo che non vi sia la consapevolezza e la conoscenza diffusa di quello che ha rappresentato quello specifico insediamento industriale nella vita della città, come ne abbia condizionato nel bene e nel male lo sviluppo, e anche come sia stato poi causa di depressione sociale negli anni successivi alla sua chiusura.
Questo non significa che nel tempo nessuno si sia interessato a descrivere gli avvenimenti sociali ed economici legati al territorio verbanese, ma la documentazione esistente, oltre a quella che sono riuscito a reperire e che ho riassunto in un articolo apparso su Verbanus[1], è costituita in massima parte da tesi universitarie che, ancorché ricche di note e di informazioni, rimangono relegate ai luoghi pubblici dove le stesse sono state depositate, probabilmente scarsamente consultate o, nel peggiore dei casi, sono ancora in possesso solo dei loro estensori. Da più di vent’anni, però, se ne è parlato e scritto in accurate pubblicazioni o conferenze su diversi argomenti e aspetti della vita cittadina, delle realtà sociali, storiche, edilizie che hanno, almeno tangenzialmente, rivisitato l’argomento consentendo, con la loro diffusione, di informare un pubblico più ampio che peraltro ha dimostrato interesse per quanto proposto. Se dunque esisteva ed esiste l’interesse dei cittadini a conoscere il proprio passato, non necessariamente attraverso lo studio di corpose monografie, ma soprattutto in forma di narrazione divulgativa, perché non sfruttare la tendenza e affrontare la storia della Montefibre? Non nascondo che l’attenzione personale per l’argomento sia stata favorita anche dal fatto di aver lavorato in quella fabbrica per quindici anni.
Vorrei soffermarmi su qualche dettaglio tecnico utile a comprendere l’origine dell’insediamento industriale. La fabbrica ha iniziato la produzione nel 1930 e già in quell’anno aveva in organico 1.000 persone; ampliata poi nel tempo, arrivò ad avere negli anni di massimo sviluppo, agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, più di 4.500 dipendenti. Tutto ebbe inizio con la produzione di filo all’acetato di cellulosa il cui brevetto e la capacità tecnologica erano allora in mano a società francesi che avevano iniziato la produzione a Roussillion, nel dipartimento dell’Isère a sud di Lione. L’iniziativa si deve alla capacità imprenditoriale di Guido Donegani, un ingegnere livornese arrivato in giovane età ad amministrare la Montecatini. Donegani aveva come criterio ispiratore del suo operato ricercare continuamente nuovi prodotti da realizzare su scala industriale, per poi da lì partire per trovarne altri che avessero attinenza con quelli precedenti. Sotto la sua guida la Montecatini divenne e rimase per molto tempo uno dei più importanti complessi industriali italiani. In alleanza con i francesi della Rhone Poulenc, la Montecatini aveva costituito nel 1928 una nuova società, la Società italiana Rhodiaseta con sede in Milano ma, per una serie di fortunate circostanze, l’ubicazione dello stabilimento fu individuata nel territorio del comune di Pallanza. Tra i fervidi sostenitori di questa localizzazione del nuovo complesso industriale possiamo ricordare il sindaco di Pallanza, Pietro Ferdinando Erba, che si dimostra solerte, secondo quanto emerge dalle delibere comunali, nel favorire in tutti i modi a Pallanza la costruzione dello stabilimento voluto dal Donegani – e dal Partito. Ne illustra infatti le motivazioni con toni drammatici:
La nostra città dall’inizio della guerra vive in uno stato di grave disagio causa la crisi dell’industria turistica su cui poggia precipuamente l’industria locale. […] la crisi si è abbattuta sugli alberghi e industrie affini, pubblici trasporti, esercizi ecc., in modo impressionante. […] Può un Comune Fascista che sente di essere cellula vitalissima dello Stato Fascista rimanere inerte? […]Ed ecco perchéé ha intavolato trattative e le ha condotte con ardore e con fede, con la Società Rhodiaseta Italiana, formata da un gruppo di finanzieri ed industriali Italiani e Francesi. […] Si tratta di uno stabilimento per la fabbricazione della seta artificiale che non nuocerà in alcun modo alla purezza dell’aria, alla salubrità del nostro clima. Si formerà così un quartiere industriale nell’entro terra mentre la Stazione Climatica si svilupperà, appena le mutate condizioni lo permetteranno, verso il lago, in direzione di Suna e sul costone soleggiato e fiorito del Monte Rosso verso Cavandone.[2]
L’importanza dello stabilimento si accrebbe ulteriormente nel 1939, quando Montecatini, attraverso una società controllata, acquistò il marchio Nylon dalla americana DuPont, con diritto esclusivo della produzione e commercializzazione del nuovo filo sintetico su tutto il territorio nazionale e decise di produrlo a Pallanza, sfruttando le sinergie che derivavano dalla presenza degli impianti e dei servizi esistenti nella fabbrica già in funzione. Tale incremento fu determinante nel decretare l’importanza della fabbrica stessa in ambito locale e nazionale. E’ ovvio che la realizzazione di un così grande complesso industriale finisse per incidere nello sviluppo economico di Pallanza prima e di Verbania poi, coinvolgendo inoltre territori più lontani, grazie alle connessioni esistenti nelle lavorazioni del prodotto finale. Basti ricordare a titolo di esempio che una materia prima, l’anidride acetica necessaria per produrre il filo all’acetato di cellulosa, proveniva dalla STET di Villadossola e che il sale 6/6 necessario per la produzione del Nylon arrivava da uno stabilimento di Novara.
Queste le premesse: a mio parere, si tratta di eventi che meritano di essere ricordati perché determinanti nel condizionare gli orientamenti dello sviluppo sociale ed economico di Verbania e dei comuni limitrofi. Convinto quindi che vi fosse la necessità di scrivere sull’argomento, ho continuato a raccogliere dati e informazioni, attraverso fonti diverse. Come per ogni vicenda umana, anche per la storia della fabbrica di Pallanza sono esistite fasi diverse, tutte significative: quella della costruzione e poi del suo massimo sviluppo, le battaglie sindacali degli anni 70, gli avvenimenti che hanno preceduto la chiusura, le conseguenze della stessa e infine la nascita sullo stesso luogo di una nuova attività industriale.
Tra le fonti trovate, quattro tesi di laurea[3] studiano i vari aspetti della vicenda Montefibre. Ognuna di esse, pur affrontando più o meno lo stesso argomento ha la sua peculiarità, anche in relazione ai periodi diversi in cui queste sono state scritte, con spunti comunque interessanti e originali. Si hanno a disposizione le informazioni relative alle lotte sindacali negli anni ’70, le denunce e i processi che a queste sono seguiti, la controversa questione che ha sollevato l’accordo sindacale del 1973 quando con la proposta di chiusura della fabbrica veniva espressa da parte dell’azienda la volontà di realizzare un nuovo insediamento nella piana di Mergozzo. Ed allora l’inizio delle procedure di esproprio dei terreni interessati era stato motivo di contestazione da parte degli abitanti di quel comune, in contrapposizione con coloro che erano favorevoli al nuovo insediamento.
Ho trovato particolarmente interessante in una di queste tesi la sintesi, messa quasi a margine della trattazione, di una indagine finalizzata a raccogliere “la voce” dei lavoratori della fabbrica nel periodo (siamo nel 1979) in cui si preannunciava una possibile chiusura della stessa. E’ un aspetto umano significativo, colto al momento che evidenzia la sfiducia generalizzata degli intervistati nell’esito positivo di ogni trattativa che garantisse certezze per il futuro della fabbrica. Da queste interviste, oltre al timore di perdere lo stipendio, emerge il disagio causato dall’eventualità di essere estromessi dal proprio posto di lavoro, svolto in alcuni casi per molti anni e che per alcuni aveva significato sentirsi parte di una comunità. Una pagina avvincente. Non mancano poi schede e tabelle che indicano i dati sugli occupati, l’elenco di altre fabbriche chiuse nella zona dove, per inciso, il locale fenomeno della disoccupazione era alleggerito proprio dalla assunzione da parte della Montefibre dei lavoratori estromessi da altre realtà industriali.
Un’altra fonte interessante per conoscere l’effettiva realtà produttiva dell’azienda agli inizi degli anni Ottanta è il bimestrale di politica economica della Regione Piemonte (n.3/84), che riporta i dati raccolti dagli stessi tecnici che nella fabbrica lavoravano. In esso si raccontano anche con accuratezza gli avvenimenti della decade 1974/1984, gli accordi (esattamente 4) tra Montefibre e sindacati, quasi totalmente inapplicati, sottoscritti nel periodo 1973/1982.
Infine, per concludere questo repertorio di fonti storiche che costituiscono una risorsa importante per futuri storici che volessero approfondire l’argomento, credo che la parte più utile e comoda per leggere l’avvicendarsi dei fatti sia la documentazione estratta dalle pagine locali e nazionali del quotidiano La Stampa di Torino. Il giornale torinese nella pagina da sempre dedicata al Verbano, riporta tra gli avvenimenti locali anche le dettagliate vicissitudini che riguardavano la fabbrica. Questo, unitamente alla consultazione dell’archivio storico del giornale, ha permesso di raccogliere informazioni quasi quotidiane, un “filo di Arianna” che indica un percorso (dagli anni Trenta agli Ottanta del secolo scorso), attraverso il quale si riesce a ricostruire e riportare nel dettaglio ciò che è avvenuto. L’insieme del materiale raccolto sarebbe potuto servire per la stesura della storia della fabbrica di Pallanza. Una serie di circostanze e soprattutto qualche buon consiglio ricevuto mi hanno indotto a raccontarne unicamente una parte, quella della origini pubblicata sul numero 42 della rivista Verbanus.
Gli ultimi anni hanno visto altri avvenimenti drammatici, come la questione delle morti per mesotelioma, dovute all’utilizzo dell’amianto presente nelle strutture della fabbrica, per le quali sono stati celebrati processi in gradi diversi o ancora prima il susseguirsi degli incidenti sul lavoro, dietro cui si snoda la storia delle famiglie colpite, che in alcuni casi potrebbero ancora fornire testimonianze dirette. Tutto questo è un terreno inesplorato. Ma ciò di cui non si può fare a meno è affrontare l’argomento della collocazione della storia della fabbrica nelle vicende nazionali.
La dissennata gestione industriale compiuta dalla Montedison, alla quale non erano estranee le scelte di politica economica dei partiti di governo di allora, e le lotte all’interno di questi tra le singole personalità politiche, gli accordi della Montedison con la società americana Monsanto per la divisione duopolistica della produzione delle fibre, la costituzione di due società diverse poste comunque all’interno dello stabilimento di Pallanza (Taban prima e successivamente Società Italiana Nailon) furono, se non le uniche, sicuramente le più importanti cause che portarono alla chiusura dello stabilimento. La conoscenza di tutti questi fatti di carattere nazionale sarebbe facilmente acquisibile attraverso la consultazione della bibliografia esistente sull’argomento, a partire dal testo ormai famoso” Razza Padrona” di Scalfari e Turani che però nella narrazione si ferma all’anno 1974.
Ad altri, a chi ne avrà voglia e interesse, l’invito a continuare il racconto.
[1] Luigi Migliarini, Cenni storici di una fabbrica. La Rhodiatoce di Pallanza, in Verbanus, XXXXII, 2022.
[2] Il passo del testo della deliberazione dell’8 ottobre 1928 del Comune di Pallanza è tratto dall’articolo citato alla nota precedente. In conseguenza delle nuove leggi fascistissime, dal 13 settembre dello stesso anno il sindaco Erba era stato nominato podestà.
[3] Francesco Fornara, Strutture sociali e mutamento politico. Analisi di un caso. Il comprensorio Verbano Cusio Ossola.
Antonella Signore, Comunità e impresa. Il Caso Montedison a Verbania negli anni 70.
Manuela Bianchi, Storia economica e sociale ed evoluzione dell’assetto del territorio.
David Lapetina, Il projet financing in Italia. Un caso aziendale: il progetto Italpet.
Foto: Archivio Azzoni
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