Magazine Alternativa A Numero 1
Anno 2025
Lutti e perdite nel tempo di Facebook, TikTok e ChatGPT
25 Marzo 2025

Una volta che noi moriamo e dunque non siamo più presenti con il nostro corpo nel mondo, continuiamo tuttavia a popolare gli spazi online occupati nel corso della vita

Negli ultimi quindici anni gli studiosi provenienti dai campi della filosofia, psicologia, sociologia e antropologia stanno monitorando, con estrema attenzione, il modo in cui le tecnologie digitali intercettano il nostro atavico rapporto con la morte, il lutto, la memoria e il desiderio, più o meno consono, dell’immortalità. A livello internazionale si parla di Digital Death o tanatologia digitale per definire l’insieme degli studi che si occupano della relazione tra la rivoluzione digitale e il fine vita. Questo interesse si è sviluppato, soprattutto, da quando la diffusione degli smartphone e del wi-fi ci ha permesso di vivere in un mondo ibrido, in cui alla dimensione offline corrisponde quella online. Ci siamo, cioè, abituati a prolungare le nostre identità all’interno di più luoghi e ambienti digitali, producendo, condividendo e registrando i nostri dati.

Proprio il processo di registrazione dei dati, che prolungano online le nostre identità, ha determinato un problema inedito: una volta che noi moriamo e dunque non siamo più presenti con il nostro corpo nel mondo, continuiamo tuttavia a popolare gli spazi online occupati nel corso della vita. Si calcola che sul solo Facebook già oggi ci sono circa cinquanta milioni di profili di utenti deceduti, a cui si sommano tutti quelli aperti sugli altri social media. La trasformazione dei social media in una via di mezzo tra un cimitero virtuale e un’enciclopedia dei morti ha determinato una serie di conseguenze, le quali – da una parte – permettono di riportare il discorso della morte davanti ai nostri occhi e – dall’altra parte – viceversa rendono più corposa la sua rimozione.

La presenza di un numero così vasto di profili social dei morti spinge, infatti, le persone a interpretare questi profili come un ponte tra l’aldilà e l’aldiquà. I dolenti scrivono ai morti sui loro profili, come se loro disponessero di una connessione wi-fi. Nel celebrarli pubblicamente, parlando simbolicamente con loro, i dolenti hanno, in un certo qual modo, portato i processi di elaborazione del lutto nella dimensione online. Oggi si parla sempre di più di “online mourning”, intendendo l’insieme dei modi con cui le singole persone utilizzano i social e i loro linguaggi sia per mantenere un legame simbolico con i propri cari sia per creare comunità con gli altri dolenti.

Su Facebook si usano prevalentemente la scrittura e si creano micro-comunità, nei gruppi e nelle pagine, per mezzo di cui ricordare e celebrare i propri cari. Su Instagram si diffondono le pratiche di Death Education, attraverso profili di individui che intendono parlare del ruolo della morte nella vita e affrontare in una modalità pubblica le delicate conseguenze di una perdita. Su YouTube si contano centinaia di migliaia di video in cui adolescenti e post-adolescenti raccontano i sentimenti provati per la morte del proprio genitore. Su TikTok esistono hashtag specifici – #grieftok il più famoso – dietro cui si celano centinaia di migliaia di video in cui le bizzarre caratteristiche di questo social vengono declinate in funzione della narrazione del lutto vissuto e del modo di elaborarlo. Addirittura, su Reddit si moltiplicano le comunità, come r/GriefSupport, che contengono decine di sottosezioni ciascuna dedicata a un tipo di lutto specifico. In tal modo, ogni dolente può confrontarsi con chi sta vivendo la stessa delicata situazione. In altre parole, i social media permettono di dare forma a quel tipo di comunità, in presenza di un lutto, che è spesso assente nella dimensione offline, un’assenza che fa sentire il dolente solo e isolato. Dunque, l’uso della mediazione degli schermi per creare comunità aiuta, in maniera sostanziosa, chi scopre di non essere l’unico a vivere proprio quel tipo di sentimento, una volta perduta la persona amata.

Il ritorno della morte e del lutto nello spazio pubblico, tuttavia, è controbilanciato da un fenomeno che, partendo dai social, chiama in causa l’intelligenza artificiale: vale a dire, il fenomeno dei “thanabots” o “griefbots”. In altre parole, viene utilizzata l’intelligenza artificiale per rielaborare tutti i dati precedentemente registrati in modo da automatizzarli, permettendo ai morti di continuare a interagire con i vivi. Vi sono app che permettono di chattare attivamente con i propri cari defunti (per esempio, Luka creata da Eugenia Kuyda), social media che riproducono le attività dei morti (Eter9), addirittura sono in progressivo aumento le richieste da parte dei dolenti a ChatGPT di permettergli di conversare una volta ancora con il caro estinto. Nel 2022 Alexa ha presentato un aggiornamento che consiste nella possibilità di continuare a dialogare con i morti, a partire da un solo minuto registrato della loro voce.

La moltiplicazione di app e progetti che mirano a ridare una forma di vita artificiale a chi non è più vivo, se viene interpretata come una specie di immortalità digitale, può creare più danni che benefici. Coloro i quali hanno patito un grave lutto rischiano, cioè, di isolarsi nelle proprie abitazioni per dialogare dalla mattina alla sera con Alexa. In altre parole, si tende a usare le innovazioni tecnologiche per negare in modo radicale la morte, illudendo i dolenti di non smettere mai di avere con sé i propri cari. Se, invece, interpretiamo queste innovazioni fantascientifiche come un modo nuovo di disporre della memoria degli esseri umani, ecco che spalanchiamo il nostro orizzonte su uno scenario inedito sia inquietante che affascinante: il dialogo artificiale con i morti si limita a riprodurre i ricordi del passato o produce delle nuove forme di esperienze? In questo ultimo caso, non si corre il rischio di trasformare il morto in una persona diversa da quella che è stata in vita? Tanto le questioni inerenti l’online mourning quanto i problemi riguardanti i thanabots richiedono studi approfonditi da parte dei tanatologi digitali, il cui compito è permettere di plasmare un contesto di sostegno e di aiuto alle persone che soffrono capace di stare al passo con i tempi.