Siamo ancora in pieno Medio Evo e già nel corso della metà del ‘200 inizia un cambiamento climatico che, via via che passano i secoli, diventa sempre più importante e quindi determinante per la vita in Europa: si tratta di quel fenomeno che i climatologi hanno definito “Piccola Glaciazione” e che avrà il suo culmine intorno al 1850. Questa situazione determina grandi cambiamenti anche sociali e influisce in modo significativo sul ruolo della donna alpina e quindi ossolana.
Le pessime annate agricole, l’indebolimento degli animali allevati e, di conseguenza, la diffusione di malnutrizione, povertà ed epidemie determinano nel tempo la necessità di emigrare per andare a lavorare nelle grandi città italiane o recarsi all’estero. Le nostre valli, soprattutto dalla metà del Settecento in poi si svuotano sempre più soprattutto delle figure maschili, poiché gli uomini partono per molti mesi all’anno, a volte per anni, e nei nostri paesi di montagna rimangono le donne con i bambini, i vecchi, gli ammalati.
Le donne, già sottoposte al predominio maschile per motivi culturali (che affondano le proprie radici in culture e tempi molto lontani), si ritrovano a dover sostituire l’uomo anche in molti lavori fisici.
I primi documenti che fanno riferimento alla condizione femminile nei nostri territori risalgono al Quattrocento, ma si intensificano dal Settecento in poi. Viaggiatori, ricercatori, funzionari, alpinisti, ecclesiastici osservano la realtà, la studiano e ne scrivono, spesso scandalizzati per quanto osservano.
Il lavoro delle donne delle nostre valli – ossolane, verbanesi e ticinesi – in tutti questi secoli viene infatti spesso descritto come prossimo alla schiavitù.
Esse, a volte, sostituiscono addirittura gli animali deputati agli sforzi maggiori perché, pur rendendo meno, costano meno e possono svolgere lavori dove l’animale non può essere utilizzato, ad esempio nei luoghi più impervi. Prendono così il posto degli asini rispetto al trasporto e, nelle zone maggiormente pianeggianti, anche dei buoi, nel traino dell’aratro.
Le donne “animali da soma”: emerge il ruolo delle figure femminili come trasportatrici di pesi immani, che si protrae, nelle valli, sino addirittura a tutti gli anni ’50 e oltre del Novecento. Un fenomeno che riguarda tutto l’arco alpino e che si accentua nel corso della I Guerra Mondiale, data la gravissima mancanza della mano d’opera degli uomini, impegnati nel conflitto.
In Carnia (Friuli) le donne sono coinvolte nel trasporto a piedi dei rifornimenti per le linee del fronte, ma anche in Ossola la «Linea Cadorna», costruita in parte nel 1916/17 a difesa del confine italo-svizzero, le vede impegnate nei rifornimenti dei cantieri e al lavoro per la sua costruzione, partecipando a squadre miste.
A cavallo tra la fine Ottocento e l’inizio del Novecento invece lo stesso CAI, racconta la storica Vittorangela Riva Rossaro, si avvale, nella biellese Valle Cervo, delle «portatrici». Sono donne che trasportano per gli escursionisti (uomini) tutto il necessario in occasione delle loro salite sulle alte cime, occupandosi anche di preparare da mangiare, lasciare puliti i bivacchi e ricondurre a valle gli eventuali infortunati, magari in spalla.
Nei nostri territori invece le donne si occupano soprattutto del trasporto di pietre, piode, ferro, letame, erba, fieno, legna, solitamente attraverso le càule o i cavàgn.
Oggi la tutela dei lavoratori prevede che un uomo non possa trasportare più di 25 chili alla volta, ma in passato era normale che le donne trasportassero anche 50 chili, lungo percorsi impervi e pericolosi, sia in discesa che in salita.
Alcune di esse giungono a portare in spalla sino a 100 chili, andandone fiere.
Benito Mazzi nel suo libro Il colore, le donne, il vino e il canto scrive che Domenica Zamboni di Toceno primeggia su tutte, riuscendo a caricarsi addirittura 117 chili a viaggio. In Valle Anzasca e Valsesia le donne lavorano nelle miniere aurifere, a Domodossola trasportano la calcina per le costruzioni.
Altro compito delle valligiane dell’Ossola è la vendita dei propri prodotti negli importanti mercati di Domodossola e Vogogna. Anche in questo caso i luoghi vengono raggiunti a piedi, portando grandi carichi. In Valle Intrasca le ragazze sono invece incaricate di rifornire le osterie di Intra, soprattutto nel periodo invernale, quando il ritorno dai luoghi di emigrazione degli uomini fa aumentare la clientela. Pierangelo Frigerio e Giorgio Margarini segnalano che a Villette, nel 1760, il lavoro di due donne è paragonato a quello di un uomo, rispetto alla costruzione del campanile.
Alle figure femminili viene consegnato il compito del trasporto, che richiede forza, ma non sviluppa competenze più fini, riservate agli uomini i quali, tendenzialmente, svolgono attività soprattutto di tipo artigianale e commerciale quando partono come migranti. Le donne però non si ribellano e spesso vogliono dimostrare di essere capaci di soffrire, di non mostrare debolezza e senso di inferiorità rispetto alla fatica fisica. A fronte dei loro immani sacrifici sviluppano frequentemente anche un’ossessione per il risparmio. Ciò permette, con il tempo, di collaborare a costruire una certa agiatezza familiare e a formare una mentalità, trasmessa di generazione in generazione, che vede un valore essenziale nel lavoro estremo.
Per contro, l’uomo di casa lavora assai meno soprattutto in seguito al suo rientro dopo i lunghi periodi di migrazione nelle città Italiane ed estere, poiché si riconosce il bisogno di riposare dopo i grandi sacrifici fatti. Inoltre, grazie alle nuove competenze acquisite in ambito professionale e il confronto con mentalità diverse e spesso di tipo cittadino, si sente “superiore” alle donne della propria famiglia e, in generale, alla propria comunità di appartenenza.
D’altro canto, le donne, anche grazie alla loro “solitudine” forzata, nel corso del tardo Ottocento/inizio Novecento acquisiscono poco per volta maggiore autonomia e riconoscimento sociale, dimostrando di essere competenti non solo nel lavoro di cura e di fatica, ma anche nella gestione dei patrimoni di famiglia. E tutto questo in un periodo in cui la scienza, ad esempio con Cesare Lombroso, dichiara ancora la donna inferiore all’uomo. Ricordiamoci, a questo proposito, che la figura femminile ha potuto accedere al voto politico solo nel 1946, potendo sia eleggere che essere eletta.
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