Che quella dell’identità sia una questione complicata lo si è capito da un pezzo, perché è una dimensione articolata, complessa, risultante da molteplici condizioni, è la sintesi di una sommatoria di stati che l’individuo contemporaneamente e sempre provvisoriamente vive. Nei numeri precedenti di “Alternativa” ci siamo soffermati sull’identità territoriale, ma quante altre se ne potrebbero enumerare?[1]. Scriveva Amartya Sen: “Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, donna, vegetariana, maratoneta, con ascendenze africane, cristiana, progressista, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica o l’unica categoria di appartenenza della persona”[2].
Quindi, l’identità non è una sorta di ritratto singolare e statico; è un aggregato di immagini, di tessere che compongono un puzzle? “No!” ribatte Bauman, perché un puzzle è, per come lo conosciamo, un gioco di composizione che si pratica avendo a disposizione come riferimento l’immagine finale, e non è neppure un mosaico che viene composto, ugualmente, sulla base di un disegno preordinato. Queste sono attività orientate a un obiettivo precostituito.
Per l’identità il processo è differente: non ci sono obiettivi precostituiti, “l’intera impresa è orientata ai mezzi. Tu non parti dall’immagine finale, ma da una certa quantità di pezzi di cui sei entrato in possesso o che ti sembra valga la pena di possedere, e quindi cerchi di scoprire come ordinarli e riordinarli per ottenere un certo numero (quante?) di immagini soddisfacenti. ‘Fai esperimenti con ciò che hai’. Il problema non è cosa ti serve per «andare lì», per arrivare al punto che vuoi raggiungere, ma quali sono i punti che puoi raggiungere sulla base delle risorse già in tuo possesso o di quelle per ottenere le quali vale la pena che tu profonda il tuo impegno”[3].
Negli articoli recentemente comparsi in queste pagine si è provato a ragionare, per lo più, di identità territoriale. In particolare, di quell’identità connessa al territorio prossimo, quello in cui si vive e magari si è nati: il paese, la città, l’ambito montano, quello lacustre, ma anche della problematicità della nostra identità provinciale in una provincia che neppure ha un nome[4]. Sullo sfondo non sono mancati riferimenti alle peculiarità proprie delle appartenenze più vaste, più estese: la vagante identità regionale, in bilico tra Piemonte e Lombardia, la problematica identità nazionale, in un Paese di grandi contraddizioni e fratture mai risolte. Ma non basta, dobbiamo fare i conti pure con un’identità europea, perché il processo di unificazione conta ormai una settantina d’anni di storia e un qualche sentimento di appartenenza dovrà pure averlo seminato.
Non mancano, infatti, frequenti occasioni per verificare che questo processo è in atto, non manca a ciascuno di noi la consapevolezza di essere compartecipe di una più vasta affiliazione territoriale, ulteriore e superiore a quelle che già ci sono. Ma questo sentire non è sempre tranquillo, non appare immediato e spontaneo come le tradizionali appartenenze territoriali: non sempre è facile sentirsi europei.
L’identità europea – perché questo e non altro è quel sentire – non è concettualmente diversa da altre identità territoriali e, in particolare, da quella nazionale. Si tratta, cioè, di costrutti culturali, quindi immateriali, stratificati e consolidati nel tempo. Ma qui già troviamo una sostanziale differenza tra le due identità: la prima ha dalla sua un radicamento di secoli, la seconda ha vita breve, è andata formandosi a partire dal secondo dopoguerra, quindi è inevitabilmente ancora meno sentita, almeno in buona parte della popolazione. L’età dei nazionalismi ha caratterizzato gran parte della storia contemporanea dei Paesi europei, il conseguente sentimento, comunque si manifesti e lo si consideri, è, se non solidamente, subdolamente radicato. Quindi, l’identità nazionale spesso si pone come intralcio a quella sovranazionale.
D’altra parte, l’Unione europea si è sempre mossa con cautela (qualcuno dice debolmente, altri saggiamente), non opponendosi e non contrastando la prevalenza delle più strutturate identità nazionali, proponendo non la fusione in un’unica entità sovranazionale, ma un livello di incontro e di aggregazione ulteriore e (moderatamente) superiore, più transnazionale che sovranazionale, attenta a non nuocere all’obiettivo del contenimento degli egoismi, delle ostilità e i dei rancori nazionali che fu all’origine dell’europeismo. Qui si ravvisa un ulteriore intralcio al processo di aggregazione: lo storico bagaglio dei contrasti, delle rivalità e degli antagonismi che le identità nazionali si portano dietro e il rischio di risvegli a fronte di scelte che possano penalizzare orgogli o interessi.
Poiché l’identità europea non dispone della profondità storica di quelle nazionali, è stato necessario elaborarne il contenuto culturale con un lavoro di selezione e assemblamento “di valori condivisi da tutti i popoli europei, di una matrice costituita dall’antica civiltà greca, dall’impero romano, dal cristianesimo, dal Rinascimento, dall’Illuminismo e dalla democrazia rappresentativa; dall’antichità classica gli europei avrebbero ereditato i valori estetici e il diritto, dal cristianesimo i valori etici e dall’Illuminismo la fiducia nella ragione, nella scienza e nella democrazia (…) una narrazione confezionata saldando fra loro epoche, dottrine e filosofie diverse e attribuendo loro una continuità ad un discorso politico, una consequenzialità che non esistono. È stata creata una narrazione mitopoietica palesemente ideologica, legata e subordinata, destinata a fornire un quadro concettuale e morale ad un processo di integrazione che dovrebbe sfociare (un giorno) in un’entità istituzionale sovranazionale: l’Europa Unita”[5]. Né più, né meno di quanto avvenuto nei singoli Paesi, però più lentamente, per sommatoria progressiva.
Questa elaborazione, nel momento in cui profila un’identità, inevitabilmente ma pure intenzionalmente, delinea un perimetro, una linea di confine: è ciò che emerse, ad esempio, con chiarezza alcuni decenni fa quando si pose il dilemma se, al di là delle valutazioni politiche ed economiche, fosse possibile ammettere nell’Unione la Turchia, nonostante una cultura e una storia di quel Paese palesemente esterne al perimetro identitario europeo che era stato tracciato[6].
La necessità di ricorrere alla definizione di un apparato identitario a tamburo battente, a differenza della lenta sedimentazione secolare dei singoli Stati, si ripercuote pure sulla dotazione simbolica talvolta poco evocativa, talvolta oscura, quando non controversa. Qualcuno sa perché nella bandiera europea campeggi un cerchio di sole dodici stelle nonostante comprenda 27 Stati membri?[7] O perché l’inno dell’Unione Europea utilizzi solo il tracciato musicale dell’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia beethoveniana, ma ometta l’omonimo testo An die Freude di Schiller che ne motiva il titolo, creando l’anomalia di un inno privo di parole, che può essere solo ascoltato, ma non cantato? E ancora, ricordiamo le controversie, oltre gli entusiasmi, suscitate dall’adozione di un altro forte simbolo – oltre che decisivo strumento economico – come la moneta unica?
Un importante fattore che incrocia l’identità territoriale è la consistenza dei flussi migratori che investono l’Europa portando identità differenti, quasi sempre estranee alle identità consolidate dei Paesi di arrivo. Ciò provoca interferenze che tendono a destabilizzare la solida rappresentazione acquisita nel tempo dai residenti e agisce perciò come motivo di crisi, soprattutto quando i flussi migratori in entrata assumono dimensioni rilevanti come quelli registrati nei maggiori Paesi europei negli ultimi decenni dando vita a consistenti comunità, per lo più chiuse, nelle città di nuovo insediamento.
Come la lontananza dalla terra di origine e il confronto con la nuova cultura interferiscono sull’identità dell’immigrato, altrettanto cultura e identità dell’immigrato interferiscono con l’identità dei vecchi residenti. Questo processo modifica la percezione identitaria rispetto a ciò che è nostro (nel senso più esteso), e che siamo più o meno disponibili a condividere o che non vogliamo lasciarci rubare da estranei, con una gamma di riposizionamento che si estende dalla comprensione, all’accoglienza-convivenza, al rifiuto, alla paura, all’ostilità.
Come la cronaca politica e sociale di questi anni ha abbondantemente evidenziato, la questione migratoria ha indotto consistenti cambiamenti nelle società europee, che hanno inciso a fondo nella percezione dell’appartenenza comunitaria, in direzione prevalentemente negative e con l’emergere di sentimenti capaci di risvegliare i peggiori incubi del passato[8].
Alle difficoltà e alle ambiguità del processo di eurogenesi, si aggiunge, come già detto, l’insoluto conflitto tra poteri degli Stati e poteri dell’Unione, che è ben rappresentato dalla contraddizione tra l’acquisito primato della legislazione europea su quelle statali, che convive, però, con il quasi intatto primato politico degli Stati. Si pensi, ad esempio, all’effetto paralizzante di un sistema decisionale che impone l’unanimità per ogni scelta di rilevanza politica.
A quanto fin qui detto, vanno sommate le conseguenze di una clamorosa frattura storica, il drastico cambio di passo nell’orientamento politico dell’Unione che ha generato un forte incrinamento della stessa idea unitaria. “Proprio quando venne decisa la creazione dell’euro, nel 1991, si rinunciò a compiere ulteriori passi nella direzione di una maggiore integrazione (una difesa unificata, un’unica politica estera…). Da allora l’Europa dei valori ha cominciato ad appassire e ha prevalso una visione giuridico-burocratica dell’Unione (…) Il motivo di questo declino dell’immagine dell’Europa e della sua capacità di mobilitazione ideologica va ricercato nelle strategie politiche ed economiche degli organi comunitari (dell’ultimo ventennio), strategie in cui di tali valori si è persa ogni traccia. Sul piano economico è prevalsa la difesa dei poteri forti e la tutela degli interessi dei Paesi egemoni dell’Unione (in primo luogo la Germania); sono state compiute scelte draconiane in nome di un ‘rigore’ che in realtà ha colpito a senso unico, penalizzando i Paesi più fragili e, al loro interno, i ceti sociali più deboli”[9].
Disillusione, disaffezione, risentimento, progressiva ostilità e ripresa delle identità nazionali, sospinte anche dalla concomitante ondata populista e sovranista (nazionalista, per essere chiari) incalzante, furono le reazioni di quote crescenti di cittadini a fronte delle scelte politiche ed economiche del nuovo corso, che neppure le politiche post pandemia hanno attenuato. Oltre all’ostilità montante verso le istituzioni europee, al crescere di riposizionamenti statali ambigui e opportunistici e al prevalere di interessi di parte, è la stessa idea europeistica che rifluisce, mentre si accentuano le incomprensioni e i dissidi tra gli Stati membri ed emerge tutta la fragilità e l’ambiguità di quell’identità europea fin lì faticosamente costruita[10].
Se chiudessimo qui, resterebbero pochi dubbi: sì, l’identità europea è una chimera, perché l’Unione è una pia illusione. Ma ragionare di limiti e carenze non esaurisce il discorso sull’essenza attuale dell’Europa. Ci siamo fin qui soffermati sul versante più problematico della vita dell’Unione europea, quello delle difficoltà, delle contraddizioni, degli insuccessi, ma, oltre il crinale, esiste un altro versante, quello dell’affermazione, della riuscita dell’originario sogno europeista.
Sarà poca cosa? Vediamo. Quanto è, ad esempio, cresciuta la conoscenza reciproca tra le popolazioni dei Paesi europei? Gran parte del continente è ormai da tempo spazio aperto, senza frontiere, grazie all’Accordo di Schengen del 1985. Una realtà inimmaginabile per chi oggi non è più giovane, costretto, in un passato ancora non lontano, a muoversi con disagi e difficoltà tra contesti culturali differenti, di cui poco si sapeva, con l’ostacolo del multilinguismo, tra controlli doganali e cambi di moneta ogni poche centinaia di chilometri, con la cortina di ferro che spaccava in due il continente isolandone la parte orientale. Poi, progressivamente ma, in fondo, rapidamente, nell’arco di pochi decenni, la situazione è cambiata: cadute le frontiere, con un’unica moneta, con una informazione sempre più rapida e circolare, le abitudini, i costumi, le culture dei Paesi dell’Unione si sono sempre più avvicinate, l’organizzazione stessa dei territori e delle città va uniformandosi, si fa più riconoscibile. Sentirsi stranieri in Europa non ha più il significato che aveva in passato.
Ciò che per chi è avanti con gli anni è percepito come grande cambiamento, per chi di anni ne ha meno di quaranta, invece, non c’è in sostanza alcun cambiamento, questa è la realtà vissuta fin dall’infanzia. Il sentirsi europei dei giovani ha un significato diverso da quello di chi giovane non è, loro europei ci sono nati. Con una mobilità più facile, con opportunità come Erasmus, basta imparare un po’ le lingue, cosa che oggi i giovani fanno molto più di padri e madri, cresce la consapevolezza di condividere una vasta area transnazionale. L’intera Europa è percepita come possibile area di studio e di occupazione lavorativa; il cosmopolitismo va affermandosi in quote giovanili crescenti; bisogna varcare un oceano per sentirsi ancora stranieri. I giovani adulti di oggi “condividono mode, gusti, stili di vita, forme di consumo, abiti mentali e tecnologie (…) l’Unione europea viene ancora percepita come un’entità politica ectoplasmatica (…) tuttavia l’Europa è già vissuta come una casa comune”[11].
Il quadro istituzionale tarda, la politica appare spesso un ottuso macigno piazzato in mezzo alla strada, ma la realtà delle genti, soprattutto dei giovani europei, è già incamminata oltre, ben più avanti.
[1] Anche se sappiamo che le cose non sono sempre andate così, ma solo da quando “la modernità ha sostituito i ceti premoderni (che determinavano l’identità in base alla nascita, fornendo per tanto pochissime occasioni per porsi la domanda «chi sono io?») con le classi, le identità sono diventate compiti che i singoli individui dovevano realizzare attraverso la propria biografia” in Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Bari, 2003, p. 57.
[2] A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Bari, 2008, Prologo, p. IX. Poco dopo, aggiunge: “L’imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell’arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari”.
[3] Bauman, cit. pp. 56-57.
[4] Si veda l’articolo di Gianmaria Ottolini “Identità territoriale? Una modesta proposta” sul n. 4 del 2024 di Alternativa oppure su https://fractaliaspei.wordpress.com/.
[5] È la sintesi di un antropologo, P. Scarduelli, Antropologia del nazionalismo – Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p. 38.
[6] La questione poi si risolve da sé con il drastico cambiamento di orientamento politico di quel Paese agli inizi di questo secolo. Qualche discussione della stessa natura suscitò anche il processo di ammissione di alcuni Paesi balcanici proprio a causa della più o meno marcata impronta lasciata dalla secolare dominazione ottomana.
[7] Nella bandiera statunitense le 50 stelle rappresentano i 50 Stati dell’Unione.
[8] “Alcune cose vanno fatte a livello europeo: a cominciare dal cambiamento della stessa normativa europea, disciplinata dagli accordi di Dublino nelle loro varie formulazioni; consentendo la mobilità o la ricollocazione sulla base di un’equa ridistribuzione tra i paesi (…) e, in prospettiva, elaborando una strategia che consideri strutturale e non emergenziale, pianificandolo, l’ingresso di rifugiati e migranti in Europa, in maniera sicura, legale e, appunto, pianificata” in S. Allievi e G. Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione”, Laterza, Bari, 2016, p. 92.
[9] Scarduelli, cit., pp. 46-47.
[10] Un aspetto emblematico di queste difficoltà è l’irrisolto problema dell’integrazione dei Paesi dell’ex blocco sovietico, ammessi all’Unione nel 2004 dopo mezzo secolo di netta separazione dal resto d’Europa in contesti politici e culturali accentuatamente differenti.
[11] Scarduelli, cit., pp. 54-55.
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