Magazine Alternativa A Numero 4
Anno 2024
Afghanistan, per non dimenticare
4 Dicembre 2024

Questa nazione ha rappresentato, probabilmente, l’abuso contro i diritti delle donne più severo ed estremo al mondo

Storicamente, l’Afghanistan è un Paese tribale, patriarcale, basato sulla pastorizia nomade e l’agricoltura stanziale, organizzato secondo linee patrilineari, in cui i ruoli di genere e la condizione femminile sono connessi a rapporti di proprietà.

Il paese non ha mai rappresentato un baluardo di parità di genere, ma stava dimostrando un crescente impegno nei diritti delle donne.

Nel 1960, il governo aveva considerato il velo come facoltativo e concesso alle donne gli stessi diritti e doveri di fronte alla legge. Compreso il diritto al voto e alla partecipazione attiva alla vita politica della comunità.

Durante l’occupazione sovietica, tra il 1979 e il 1989, furono poi avviate una serie di riforme volte alla sovietizzazione e laicizzazione del territorio: tra queste, l’età minima del matrimonio fu alzata e grande enfasi fu attribuita al ruolo dell’istruzione, cui seguì la creazione di numerosi corsi di alfabetizzazione anche per bambine.

E’ in questo contesto che cominciò a organizzarsi la resistenza islamica che farà precipitare l’Afghanistan in uno stato di forte instabilità all’insegna di una guerra civile permanente.[1]

Con la salita al potere dei mujaheddin nel 1992, il diritto delle donne di partecipare pienamente alla vita sociale, economica, politica e culturale del paese fu drasticamente ridotto. Già nel maggio di quell’anno, il portavoce del governo ad interim aveva pubblicamente annunciato una nuova serie di norme riguardanti il comportamento delle donne.

“Ordinanza circa il velo delle donne. Chiunque sia contrario al velo è un infedele e una donna non velata è immonda”. Le caratteristiche dell’abbigliamento e le norme di comportamento a cui le donne dovevano attenersi erano ben definite, eccone alcune:

  • il velo deve coprire tutto il corpo;
  • gli abiti non devono essere di stoffa sottile, non colorati né decorati, non devono essere attillati in modo da impedire che si notino le forme del corpo;
  • non devono profumarsi e, se dovessero farlo e passare accanto a un uomo, verranno considerate adultere;
  • gli ornamenti ai loro piedi non devono produrre alcun suono;
  • non devono camminare al centro della strada;
  • non devono uscire di casa senza il permesso del marito;
  • non devono parlare con estranei né guardarli;
  • se hanno necessità di parlare, devono farlo a bassa voce e senza ridere.[2]

In seguito, con l’ascesa al potere dei talebani, e attraverso il lavoro di controllo dei membri del Dipartimento per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Rischio, le donne sono state totalmente private di qualsiasi diritto.

Le donne considerate non in regola sono state torturate, picchiate, stuprate e giustiziate pubblicamente. Gli abusi di potere del regime sono stati ampiamente documentati eppure il mondo ha ignorato la tragedia del popolo afghano, in particolare della componente femminile, fino all’11 settembre 2001.

Come stabilito negli accordi della Conferenza di Bonn del dicembre del 2001, sotto l’egida degli Stati Uniti, è stato insediato a Kabul un governo ad interim presieduto da Hamid Karzai e composto soprattutto da ministri dell’Alleanza del Nord, nonché i mujaheddin sostenitori delle norme emanate neanche dieci anni prima.

Con questi presupposti e con la sharia ancora in vigore, l’attribuzione di alte cariche del governo a persone di genere femminile è totalmente vana.

Un rapporto di Amnesty International nel 2003 afferma come “discriminazione, violenza e insicurezza sono ancora diffuse malgrado le promesse dei governi internazionali […] che la guerra in Afghanistan avrebbe portato la liberazione delle donne”.

Nonostante la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sulle donne da parte delle autorità afghane, l’ineguaglianza tra uomini e donne è sancita dalla legislazione interna, soprattutto per quanto riguarda matrimoni e divorzi, adulteri e rapporti sessuali extraconiugali.

Il ritorno dei talebani, l’apartheid di genere

Con la consegna dell’Afghanistan ai talebani nel 2021, l’evento definito dalla popolazione afghana come il più grande tradimento ad opera degli Stati Uniti, è stato applicato un sistema di estrema discriminazione e violenza istituzionalizzate[3] contro donne e ragazze.

Uno dei più gravi colpi è stato inferto all’istruzione femminile: già nel 2022 il governo talebano, sempre attraverso il suo Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, ha vietato alle adolescenti di frequentare le scuole secondarie, e nel marzo 2024 ha abolito anche le classi primarie superati i 10 anni di età.

A più di 3.000 donne che si erano già laureate in medicina prima del divieto è stato impedito di sostenere gli esami per esercitare la professione.[4]

Questa politica non solo danneggia il futuro individuale di ciascuna donna afghana, ma avrà conseguenze durature su una società che si troverà priva di figure professionali essenziali, come insegnanti e medici.

Pur di ottenere una qualche forma di istruzione, alcune giovani hanno iniziato a frequentare le madrasa (le scuole islamiche), dove si concentrano sull’apprendimento del Corano.[5]

Alle donne è anche impedito di lavorare nella maggior parte dei settori pubblici e privati, un fatto che aggrava l’attuale crisi economica e aumenta la dipendenza delle famiglie da mezzi di sostentamento sempre più limitati.

Molte hanno perso l’occupazione, altre sono soggette a restrizioni che ne ostacolano il regolare operato: le operatrici sanitarie, per esempio, sono impossibilitate all’incontro di accompagnatori di sesso maschile delle pazienti.

Senza scuola né lavoro e con l’obbligo di muoversi solo accompagnate da un mahram (un maschio della famiglia), lo spazio di azione di una donna si restringe sempre di più all’ambito domestico.

Il deterioramento delle condizioni economiche e la perdita di prospettive per le donne hanno contribuito a un aumento dei matrimoni precoci e forzati. La situazione è aggravata dalla chiusura di rifugi per donne vittime di violenza domestica, che ha esposto migliaia di sopravvissute a ulteriori rischi e all’impossibilità di trovare protezione.

Ogni giorno ci sono notizie di donne frustate pubblicamente, lapidate, obbligate ad accettare matrimoni forzati e a cui vengono vietati ascolto di musica, passeggiate al parco, ingressi in club sportivi.[6]

Sono etichettate come infedeli solo per aver indossato male l’hijab, essersi truccate o aver seguito corsi di lingua inglese.

Lo stupro è usato come arma per far tacere le donne: “nella cultura in cui sono cresciuta, non c’è niente di peggio di una donna che viene violentata. Non è solo la sua vita, ma anche quella della sua famiglia e la loro reputazione a essere in gioco”.[7]

E’ il peggior incubo in Afghanistan e, talvolta, si realizza nel modo peggiore possibile: nelle prigioni dei talebani, dove nessuno può aiutare. Qualche mese fa, alcune giovani sono state arrestate e stuprate da uomini armati. A una di loro, che ora è fuggita dal paese e vive in esilio, è stato inviato il video della violenza, con il tentativo di ricattarla per farla tacere.

Che tipo di regime produrrebbe prove del suo crimine e le invierebbe alla vittima? Un regime che sa che, quando viene diffuso il video di una donna che viene stuprata, è la sopravvissuta ad essere incolpata perché l’onore di una famiglia dipende dalla purezza delle sue donne.

Per tenere alta l’attenzione su questo luogo di violenza sistematica, l’organizzazione Hasht-e Subh Daily[8] ha pubblicato una mappa digitale dei centri di detenzione e le prigioni femminili sotto il controllo dei talebani ed espone anche informazioni precedentemente nascoste, tra cui il numero di prigioniere, le accuse a carico e l’accesso ai familiari.

L’isolamento, la totale esclusione dalla vita sociale e la cancellazione del futuro consumano la mente. I disturbi psichici aumentano, specialmente nelle giovani, crescono il numero dei suicidi e il consumo di droga. Su quattro milioni di tossicodipendenti, un milione sono donne.[9]

Anche in relazione alla situazione afghana, Amnesty International chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto come crimine di diritto internazionale per colmare il vuoto nell’attuale sistema giuridico globale.[10]

La resistenza delle donne, la fragilità dei talebani

Nonostante l’azione dei talebani sia ogni giorno più oppressiva, molte donne afghane continuano a battersi per i loro diritti, partecipando a proteste e sostenendo iniziative comunitarie per il cambiamento.

Tra queste, emblematica è la storia di RAWA,[11] Associazione Rivoluzionaria delle donne afghane fondata nel 1977 a Kabul da soli cinque membri sotto la guida della studentessa appena ventenne Meena Keshwar Kemal.

Sono convinte, oggi come allora, che l’arma migliore per la rivoluzione sia l’educazione e sono la risposta più strutturata e duratura del paese:

  • fondano la rivista Payam-e-Zan (Messaggio delle Donne) al fine di diffondere opinioni, obiettivi di lotta e consapevolezza riguardo ai diritti;
  • offrono corsi di alfabetizzazione linguistica e, parallelamente, civica;
  • promuovono percorsi di formazione professionale e di inserimento socio-lavorativo finalizzati all’indipendenza;
  • sollecitano la partecipazione attiva in un’ottica di condivisione delle responsabilità politico-organizzative.

Sostengono che non possa esistere pace senza giustizia e che “nessuna nazione può liberare un’altra nazione, […] solo il popolo afghano che può liberare se stesso”.[12]

Seppur la quotidianità delle attiviste di RAWA porti tanti livelli di complessità, le loro attività non si sono mai fermate: “Quando usciamo di casa – racconta una di loro in un’intervista recente:[13]mettiamo l’hijab con la mascherina e anche gli occhiali scuri per non farci riconoscere. Non parliamo con nessuno fuori, nemmeno quando siamo in macchina. Cambiamo casa spesso. Non facciamo mai la stessa strada né usciamo alla stessa ora. Controlliamo continuamente che nessuno ci segua, devi sempre pensare a quello che potrebbe succedere. Affittiamo una macchina. Non possiamo usare le nostre, potrebbero seguirci fino a casa. […] quando usciamo non portiamo mai il nostro cellulare, né i documenti”. E, ancora: “Sono i sistemi che Rawa ha sempre usato fin dalla sua nascita. Non ci mostriamo mai, nessuno sa chi fa parte di Rawa. Usiamo nomi falsi in modo da non poter essere mai identificate. Il nostro volto non deve mai essere registrato dalle telecamere”.

Sono tante le donne che stanno gradualmente imparando come aggirare le politiche oppressive del regime: studentesse che proseguono i propri studi in segreto, online o da sole; lavoratrici che si organizzano con occupazioni clandestine perché spesso sono le sole del nucleo familiare ad avere una professionalità che garantisca loro un’entrata.

Un ruolo fondamentale è svolto dalle giornaliste che, nonostante le regolari intimidazioni, continuano a lavorare per fornire informazioni accurate, per documentare storie di donne.[14]

Più si intensifica la misoginia, più attiva diventa la resistenza delle donne: dovrebbe essere definita una guerra di logoramento.[15]

Il movimento, pacifico e civile, si scopre più difficile da sedare con la violenza, rispetto alle ribellioni militari, e mette in luce le fragilità del regime talebano:

  • internamente, ridicolizza e affronta il mito della loro vittoria, mostrando come negli ultimi tre anni non siano stati in grado di agire una repressione efficace del dissenso;
  • esternamente, crea una sfida decisiva per il regime talebano: il riconoscimento da parte della comunità internazionale.

Come spesso ripete Malalai Joya[16], attivista afghana delegata della sua provincia alla Loya Jirga (la Grande Assemblea) ora in esilio, l’unico modo per salvare l’Afghanistan è la solidarietà delle forze progressiste, democratiche e laiche di tutti i paesi, soprattutto da parte di quelli che hanno i loro stessi nemici, estremisti, fondamentalisti e misogini.[17]

Le lotte delle donne del Rojava, delle donne irachene e delle donne iraniane sono fonte di ispirazione, occasione di contaminazione reciproca e hanno avuto un impatto positivo in Afghanistan.

E, adottando un approccio decoloniale e intersezionale, potrebbero averlo nel mondo intero.


Per approfondire:

[1] S. Cataldi, Get the word out. La forza delle donne afgane. Il riscatto di una dignità negata, MEF L’Autore Libri Firenze, 2006.

[2] M. Joya, Finché avrò voce, Edizioni Piemme, 2010.

[3] https://www.lettera43.it/afghanistan-aumentati-suicidi-donne-talebani/

[4] https://www.aljazeera.com/features/2023/12/30/veiled-rebellion-female-medical-students-go-underground-in-afghanistan

[5] https://www.france24.com/en/live-news/20230316-banned-from-school-afghan-girls-turn-to-madrassas

[6] https://www.greenleft.org.au/content/power-education-key-achieving-afghanistans-emancipation-interview-malalai-joya?fbclid=IwAR25KE0GvWkm72jajhatyessf-ftiA6_G9LKtZ2a6IA8hSRtZbx0qdGAGJ8

[7] https://zantimes.com/2024/07/05/why-the-taliban-use-rape-to-silence-women/

[8] https://8am.media/eng/the-digital-map-of-womens-prisons-under-taliban-rule/

[9] https://altreconomia.it/imparare-a-cucire-e-tornare-a-vivere-le-sarte-che-sfidano-i-talebani/

[10] https://www.amnesty.it/lapartheid-di-genere-sia-riconosciuto-come-crimine-di-diritto-internazionale/

[11] http://www.rawa.org/index.php

[12] https://ilmanifesto.it/grazie-allamerica-il-popolo-afghano-e-al-punto-di-partenza

[13] https://altreconomia.it/sono-i-fucili-ad-avere-potere-nel-mio-paese-lafghanistan-noi-resistiamo-oltre-il-silenzio/

[14] https://rukhshana.com/en/the-strategic-necessity-of-female-journalists-in-afghanistan-and-our-commitment-to-ensuring-their-survival

[15] https://8am.media/eng/the-talibans-intensified-misogyny-the-necessity-of-expanding-the-womens-protest-movement/

[16] https://malalaijoya.com/it/

[17] https://www.greenleft.org.au/content/power-education-key-achieving-afghanistans-emancipation-interview-malalai-joya?fbclid=IwAR25KE0GvWkm72jajhatyessf-ftiA6_G9LKtZ2a6IA8hSRtZbx0qdGAGJ8

Foto dal web

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