Magazine Alternativa A Numero 3
Anno 2024
“A” COME “AMMORE”
26 Settembre 2024

Finalmente il miracolo, il grande passo. Anche la nostra divenne una famiglia di quelle normali.

La TV entrò in casa e ci restò per sempre.

Agghindati e devoti come in pellegrinaggio, andammo all’acquisto una domenica mattina, prima della messa.

Mio padre, per l’occasione, tirò fuori una cravatta.

Avevo dieci anni. Fino ad allora, per la TV dei ragazzi, andavo dal nonno Pepino, il papà di mia mamma. Piuttosto tecnologico, si era procurato un apparecchio moderno, di quelli che, diceva lui, si scaldavano in pochi minuti. Non poi così pochi se, nel frattempo, ci facevo una bella merenda. Con me divideva la passione per i quiz: era Febo Conti che con geografia, storia, curiosità, giocando per imparare, ci teneva incollati al televisore. Una trasmissione che, in poco tempo, divenne leggenda: “Chissà chi lo sa?”. Ma un pomeriggio d’inverno, mentre me la stavo gustando al tepore della stufa economica nella cucina di casa, successe l’inimmaginabile.

Al clou della suspence, quando l’enigma era “parole che iniziano con la lettera T nel mondo della fotografia”, una voce gracchiante dall’inflessione romanesca soverchiò l’audio del programma e irruppe nella quieta domestica con un esplosivo:

“A COME AMMORE,

A COME AMMORE…

 QUELLO CHESSEFFA’ COLLE DONNE!!!”

Ricordo lo sbiancare di mia madre, sospesa tra imbarazzo e sconcerto: di quel tipo di amore non si doveva parlare.

Sapeva di non avere particolare confidenza con la programmazione televisiva, ma le parve in ogni caso eccessivo che l’educazione sessuale per famiglie passasse, a tradimento, negli spettacoli per ragazzi. Troppo. Un po’ troppo.

Sicura di proteggermi girò, con un po’di impaccio, la manopola in basso a sinistra, e un clic spense l’apparecchio.

Nel trambusto ebbi comunque la sensazione che quella cosa, dell’amore che si fa con le donne, non fosse poi così male.

L’episodio, in un paese sonnolento come era il mio, divenne facilmente un caso tanto che, per arrivare ad una spiegazione, furono chiamati tre esperti: il venditore dell’apparecchio, l’antennista e il nonno.

Fu il tipo dell’antenna che, preceduto da una risata grassa come lui, svelò il mistero: la FINANZA!!

Ebbene sì, la mia scatola magica captava non solo “Chissà chi lo sa” ma anche i messaggi radio trasmessi dalla Guardia di Frontiera.

Abitavamo molto vicini alla Tenenza: dalla finestra sopra il letto, che guardava verso il lago, vedevo l’enorme trasmettitore slanciarsi di prepotenza verso il cielo, senza però immaginarlo impegnato a sparare le sue onde invisibili contro la mia minuscola antenna. Messa lì sul tetto giorno e notte come un gatto solitario.

Le interferenze non cessarono, anzi presero a entrare quotidianamente nel nostro nuovo mondo di tele spettori, ma, ahimè, l’AMMORE finì. Solo ALPHA, TANGO, CHARLIE, BRAVO, DELTA, OSCAR … che immaginavo fossero i nomi di qualche finanziere, strani però.

Un vicino di casa, carabiniere da poco congedato, parlò di linguaggio in codice, qualcosa che sapeva di segreto. Un mistero che divenne il diversivo del momento, un’occasione di novità che non durò, comunque, a lungo.

La storia prese un’altra piega quando la stessa voce ruvida cominciò a lanciare nell’etere nomi e cognomi.

Imparammo a fare gli indifferenti, ma un giorno la nomination mise al tappeto mio padre: toccò al figlio di un amico.

Si agitò, fece qualche telefonata. Di lì a pochi giorni le intrusioni finirono e Febo Conti riprese i suoi quiz senza più intoppi.

Qualcuno, con poche parole dette sottovoce, mi raccontò di persone sospette, fuori dalle regole: ricercate o tenute sotto tiro per commerci, fatti di nascosto, al di qua e al di là del confine. Contro la legge. Sulle montagne.

Confesso che la cosa mi affascinava un bel po’… un filtro romantico me li mostrava un po’ Robin Hood un po’ Jack London, ma anche Toro Seduto e Zorro. Simili ai miei eroi del momento.

Riscatto dalla povertà, complicità con la natura, ribellione al potere e fame di avventura mi sembravano la loro bandiera.

Una miscela intrigante cui aspirare, un obiettivo un po’ prematuro, forse, per i miei anni. Colpa del troppo leggere?

Qualcosa, però, non tornava.

Non capivo perché caffè e sigarette avessero una valenza così grande da giustificare quell’insana sfida a guardie e ladri che ogni tanto faceva suonare a morto le campane del paese.

Facevo il tifo per quella fronda, anche se la mia spinta emotiva non trovava apprezzamento in famiglia. Avevo il divieto di parlarne: la mia età non lo consentiva.

Era uno dei tanti tabù che allora ottenebravano oppure colorivano la routine del paese: secondo i gusti.

Quando la notte mi svegliava il rombo delle Guzzi d’ordinanza, correvo alla finestra per vedere le due pattuglie correre nella stretta via poco illuminata e deserta.

Anche la fantasia galoppava. Immaginavo i cinque fratelli di una vecchia canzone vagare nella polvere di neve portata dalla tormenta. Me la cantava la nonna per alleggerire le giornate da malato, quando l’influenza si trasformava nell’atteso libro che si apriva su storie e ricordi, avvolti nell’odore di arance e guajacolo, lo sciroppo per la tosse.

“Tutti quanti medesimo mestiere” – diceva – quello di vagare nelle tenebre, con le spalle curve dal carico e il timore di un piede finito nel posto sbagliato. L’imprevisto che uccideva sui sentieri delle capre, quando l’erba bruciata dal gelo faceva da coperta al ghiaccio, non sempre brillante alla luce della luna.

La bricolla, piena di tabacco o caffè, appiccicata alla schiena, scaldava i sudori della fatica e i sogni del “valore di cinquemila lire”. Quelli di ragazzi e uomini che ogni notte salivano sulla giostra della vita insieme ad altri, messi dal destino ad infrangere quei sogni. Il gioco di un attimo in un duello tra poveri. Ma la canzone, figlia del sapere popolare, portava a un lieto fine: per questo l’amavo tanto. “… e alla finanza le manderemo a dire che la bricolla che noi abbiamo lasciato …” Un happy end, il segreto di una non belligeranza dettata più dalla legge del cuore che non da quella dello Stato.

Nessuno sarebbe tornato a casa a mani vuote. Ma il tempo, oltre a giorni e stagioni, cambiò anche persone e situazioni.

Quella mia ingenua visione romantica andò, via via indebolendosi. La storia avrebbe mutato gli orizzonti e la merce avrebbe passato i valichi del paese non più a spalle ma dentro autobotti o motoscafi. Denaro, orologi e droga soppiantarono ben presto tabacco e caffè. Quel vessillo della fronda, che bambino idealizzavo, andava languendo, perdendo nobiltà. Assumeva mano mano connotati sempre più cinici e malavitosi. Il buio, amico fedele e sicura coperta di tante notti insonni consumate a camminare fino a rivedere il sole, non serviva più. Poteva bastare il brivido di un “nulla da dichiarare” buttato lì ad un doganiere, per sconfinare su un’auto imbottita di polvere bianca. Non la bricolla da “cinquemilalire”, ma carichi milionari. Non il ritratto etico del trasgredire per vincere la miseria, ma la fotografia spregiudicata di un traffico che diventava sporco. I vecchi lupi di montagna, aggrappati alle rocce dei loro ricordi, lasciavano il posto a torbidi individui da bar. Era la fine di un’epoca che silenziosamente spariva nelle pieghe di un progresso già malato sul nascere.

Restava il paese di frontiera col suo tesoro fatto di sensazioni, ricordi, storie, fatti, misfatti, pettegolezzi e verità.

Un film iniziava con un bambino alla finestra. Di notte.

Due “Guzzi” della Finanza sfrecciavano rumorose nella strada addormentata.

La canzone di una nonna ne svelava i protagonisti.

Contrabbandieri.